«Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti, fate. Che cosa farebbero? Un corno, dice mia nonna».

Occhi, mani, facce, dita. Sguardi, sensazioni, pensieri. Scelte. In sintesi, persone. Lo scriveva Elio Vittorini nel romanzo “Uomini e no”, un racconto della Resistenza milanese dopo il settembre del 1943, una storia d’amore che si intreccia con la lotta armata partigiana. Una storia che, forse, ci può ricordare cosa c’è dietro al fascismo, vecchio e nuovo: persone e, in loro, delle scelte. Spesso, rendere nulla delle persone, non chiamarle per nome, dargli un numero o ridurle a una categoria da odiare, su cui agire violenza, da rendere capro espiatorio. Corsi e ricorsi di una lunga storia e di migliaia e migliaia di storie. 

È difficile ragionare, settantanove anni dopo, di Liberazione. È difficile pensarla come una festa in un mondo disgregato e distrutto, fatto di fazioni e morti, di armi che alimentano guerre, di una pace che sembra impossibile. E allora forse ragionando sulla Liberazione, vale la pena pensare alla scelta, alle scelte. 

Nata dalla Resistenza. Nel rifuggere e nel distaccarsi dal conflitto – inteso in senso ampio come presa di posizione e lotta, contrasto, opposizione, non per forza in senso armato – spesso ci si scorda che la Repubblica in cui viviamo è nata dalla Resistenza. Scontato dirlo e ricordarlo, meno scontato ricordarsene giorno dopo giorno. La Resistenza – lo scrisse lo storico Claudio Pavone – fu una guerra civile: una guerra patriottica, civile e di classe. Mentre gli ultimi e le ultime superstiti di quella stagione che settantanove anni fa portò alla Liberazione dal nazifascismo sono ancora in vita, c’è una vita reale in cui quelle storie, quelle voci, quei racconti dei partigiani e delle partigiane sembrano lontane anni luce. Eppure sono tutte storie che parlano di scelte e, in particolare, della scelta del conflitto, che in quel momento non poteva che essere lotta armata. 

Una guerra patriottica, civile e di classe. Patriottica la scelta di non stare con quello che da alleato diventa invasore e di opporsi; civile nel lottare contro quello che era stato fino all’otto settembre il sistema dominante, quello del fascismo; di classe. Di classe è la scelta di non indossare la divisa, di classe è la scelta di non stare in casa ma di esporsi. 

Ne “Una guerra civile” Claudio Pavone scriveva così: «Nelle situazioni di normalità non è necessario prendere continuamente posizione a favore del sistema. Ma la necessità di esplicitamente consentire, o dissentire, diventa impellente quando il sistema scricchiola». Quante volte abbiamo sentito il sistema scricchiolare pensando che si sarebbe rimesso a posto da solo? Che le tarme che infestano il legno dei nostri mobili sarebbe scomparse da sole? Quanto in questi settantanove anni da quel 25 aprile non abbiamo preso posizione? Centinaia, migliaia di volte. 

Ecco, forse, semplicemente, è una bella occasione il 25 aprile tornare a sentire forte le storie di chi quella lotta partigiana l’ha vissuta, le voci di chi ha scelto, negli appennini, sulla Linea Gotica, nelle piazze e nelle strade. E ricordarsi che quella “Repubblica nata dalla Resistenza” non è autosufficiente e immune, che i requisiti essenziali di un sistema democratico non bastano da soli a definire la qualità di quel sistema, che quel sistema deve entrare anche e soprattutto ai margini. E per farlo c’è bisogno di scelte e a volte anche di conflitto, di tensione con il potere e con quella che viene definita “normalità”. 

Buon 25 aprile.