Una mattina di primavera, un rastrellamento, una stanza con un piano e le SS.
di Bruno Giorgini
Vogliamo ripubblicare questo articolo che Bruno Giorgini, che è stato per diversi anni nostro collaboratore e mentore, ha scritto per Q Code Mag. Bruno Giorgini era un’intelligenza vivace, un esploratore della condizione umana e delle regole della fisica, un amante del bien vivre, un militante fino al midollo, un compagno degli anni duri del conflitto. La sua cultura e la sua allegria sono un legato per chi lo ha conosciuto, anche la sua testardaggine. Ciao Bruno. (am)
L’Adria sul sellino posteriore della moto si guarda intorno assaporando la felicità di una mattina di primavera, con l’orizzonte della pianura che sembra infinito, e verde come i filari di vigne e i campi d’erba spagna che scorrono accanto, potrebbe allungarsi a toccarli.
La corsa è bella perché non si fa in tempo a fissare lo sguardo su una cosa che già si è passati oltre, un’altra sopraggiunge velocissima, è come vivere sempre nel presente, vedendo il futuro lì a due passi. Tutto trascorre in una danza, L’Adria adora ballare, o come quegli acrobati colorati e agilissimi che posi l’occhio e sono già altrove con un volteggio e una smorfia, li aveva visti una volta al circo e tanto ne era rimasta emozionata col rullo dei tamburi e le capriole ovunque, fino ai salti mortali, veramente ai primi aveva chiuso gli occhi, non voleva vederli se si fossero schiantati, ma non accadde, e così cominciò a tenerli aperti gli occhi anche di fronte alle acrobazie più improbabili e spericolate.
La moto girovaga tra S. Alberto e Voltana, Zalet alla guida sembra divertirsi un mondo.
L’Adria si perde tra il cielo blu, il verde della campagna, e i sogni di giovane fanciulla poco più che ventenne, possono andare a zonzo in tutta libertà tanto non hanno niente da fare di preciso, nessuna missione di combattimento o sabotaggio da compiere, nessun messaggio importante da recapitare, soltanto dare un’occhiata e fare un saluto ai compagni sparpagliati in quella zona della bassa ravennate. Il fronte non è lontano, quasi potrebbero andare a stringere la mano ai soldati inglesi. Oltre la curva invece compare improvviso un posto di blocco dei tedeschi, i tognin o crucchi come li chiamano in Romagna. Non portano le divise verdi della Wermacht, ma quelle nere col teschio delle esseesse, a pochi metri senza scampo, tornare indietro non si può, tentare di superarlo in velocità o tagliare per i campi nemmeno, finirebbero schienati sull’asfalto da una raffica. Non resta che fermarsi col cuore dell’Adria che batte forte, speriamo non lo sentano si dice, smetti di battere smetti ti prego sta in silenzio non devono capire la paura che ho.
È tanta la paura. Bisogna tenerla a bada perché non diventi panico o terrore. Per fortuna non sono armati, e i documenti falsi sembrano veri. O almeno sperano. Istintivamente si stringe a Zalet mentre sta frenando, poi scendono, Zalet mette con movimenti precisi non troppo svelti non troppo lenti la macchina sul cavalletto. Intanto si sono guardati intorno, è un posto di blocco su due linee ben distanziate e sghembe per non rischiare di colpirsi a vicenda, se sfondi o aggiri la prima sei fermato dall’altra, e soldati anche nei campi intorno. Una mitragliatrice è spianata in trasversale alla strada, così da tenerla sotto tiro lungo un arco di 180 gradi, proprio un buon posto di blocco, senza smagliature e gli uomini in divisa nera col teschio tutti pronti a sparare al primo stormir di foglie, nessuno è disattento, nessuno fuma indolente una sigaretta, nemmeno alle belle gambe dell’Adria buttano un occhio.
Nel fosso ci sono parecchie biciclette ammonticchiate, più avanti a una cinquantina di metri molte persone, poco più in là due camion. L’Adria e Zalet non sono i primi. Avviandosi con due soldati di scorta verso un ufficiale, Zalet si prepara a rompere il ghiaccio, e comincia protestando per la sua moto lasciata incustodita, ma è come se parlasse al vento o a una statua.
L’ufficiale non fa una piega, nemmeno urla o sbraita, si limita a un cenno per i soldati che li spingono verso gli altri rastrellati.
Bruscamente vengono separati: l’Adria col gruppo delle donne una ventina vicino a un camion, Zalet con gli uomini, più o meno altrettanti, vicino a un altro. Nessuno dice una parola, nessuno chiede spiegazioni, nessuno li interroga o verifica i documenti, il tempo sembra essersi fermato per tutti a quel posto di blocco incongruo in una bella giornata di primavera, e lugubre con tutti quegli uomini neri col teschio venuti da tanto lontano a interrompere una oscura strada di campagna, poco più di un viottolo. Venuti a sospendere la loro vita quotidiana a un filo che può rompersi per un gesto di troppo, o un camminare sghembi dove i neri ti vogliono invece che vai diritto.
L’Adria si rincuora, tutti hanno paura, alcune donne sono livide, qualcuna trema vistosamente, quando poi cominciano a contarle in tedesco con l’indice puntato una dopo l’altra il mondo si raggela, stanno per essere fucilate, è un pensiero lancinante e un brivido si trasmette, le avvince quella paura sudata come un filo a legarle tutte, un filo che le attraversa da parte a parte e i cui capi sono tenuti dagli uomini neri col teschio e il fucile. Sebbene paurosa, la scena è anche talmente stralunata e grottesca che L’Adria allora ride, un bel sorriso aperto, mentre vengono spinte sul camion, se volessero fucilarle come ostaggi non le porterebbero via in camion, poi sono soltanto tedeschi, mancano i repubblichini, alcuni la conoscono bene, lei figlia di noti antifascisti della prima ora, sorella di un famoso sovversivo, un rosso dei peggiori, ma i tedeschi dubita che sappiano, che conoscano il suo impegno e curriculum nella resistenza.
Figuriamoci, si considera una brava combattente, ma non tanto da scomodare un intero battaglione di esseesse, sono giochi mentali, ne è cosciente, per distrarsi, per non farsi prendere dall’angoscia, per dirsi ce la faccio, ne uscirò viva e libera, non è ancora nato chi è capace di mettere il sale sulla coda all’Adria. La sua più cara amica e compagna di lotta, Lina non è ancora stata presa, né torturata, né uccisa, L’Adria pensa intensamente a lei, oziosamente quale sarà la più bella tra loro due, e la più coraggiosa. Non si rivolge a Zalet, o a suo fratello Barilot, o al padre Potastila, neppure a Pietro, sente il bisogno di avere al fianco una donna, un angelo custode femmina, sarà perché adesso la esseesse di guardia le gambe gliele guarda eccome, e lei si sente indifesa di fronte a quegli occhi che la percorrono dalle caviglie alla bocca e indugiano e guatano e li odia quegli occhi e li odia quei tedeschi e l’odio è un buon antidoto contro la paura. O perché comunque le donne sono più potenti degli uomini, e più fedeli, non sa bene come esprimere questo sentimento, ecco sono certamente più amiche le donne degli uomini.
Pensa anche: quante cazzate mi vengono in mente.
Sul camion L’Adria è la più giovane in questo gruppo di donne evidentemente contadine col fazzoletto in testa, alcune con la sporta della spesa che non hanno voluto lasciare, chi li sente poi i mariti i padri i figli se non c’è il piatto pieno e pronto al mezzogiorno, nonostante la guerra in campagna non si soffre la fame, almeno questo, almeno morire con la pancia piena se ha da essere. L’Adria è la più giovane e anche la più elegante, si distingue tra le altre per una certa aria cittadina, un po’ beffarda o irriverente col basco blu calcato in testa sulle ventitre. Sapendo che meno la notano e meglio è, cerca di mimetizzarsi. Si rannicchia, incurva le spalle, si toglie il basco ma emergono i suoi capelli corvini che sembrano scuotersi da soli, avere vita propria, riempire l’intero angusto spazio e tutti la guardano con quel gesto che lei voleva furtivo e inavvertito, invece essendo sbarazzino. Vorrebbe essere invisibile, almeno anonima.
Il rastrellamento le sembra generico, non mirato a qualcuno o qualcosa di preciso, una rete buttata più o meno a caso però in zona partigiana, e questo lo sanno i soldati neri, i civili, lei, Zalet ma non bisogna che traspaia il minimo indizio, deve confondersi tra le altre donne scomparirci dentro, però la sua raggiante giovinezza nemmeno la paura riesce a spegnerla, una delle rare volte in cui vorrebbe essere più bruttina, insignificante.
Tra le sue compagne qualcuna prima di montare ha lanciato un’occhiata o fatto un gesto con la mano verso il gruppo degli uomini, qualcuna si è segnata rapidamente la fronte e le spalle, altre sono salite a capochino senza dare neanche un’occhiata intorno o al cielo, le biciclette stanno recline sui bordi del fosso che costeggia la strada, chissà se le rivedranno. La motocicletta invece brilla sul cavalletto, salta agli occhi inconfondibile, L’Adria ne ha quasi un senso di colpa. Quando il telone viene abbassato e il cassone del camion piomba in una penombra ai limiti del buio, c’è una corale sensazione di sollievo, come lo sgravarsi di un peso; finalmente stanno andando da qualche parte, tra un po’ sapranno che destino le aspetta, il rumore del motore e le scosse le rianimano.
Intanto non sono state fucilate sul posto,
e nemmeno maltrattate, qualche spintone o un calcio del fucile duro sul petto, ma cosa vuoi, si sente di ben peggio, siamo in guerra, e poi se si danno la pena di trasportarle da qualche parte, non sarà certo per ammazzarle appena arrivate, e finchè c’è vita c’è speranza.
L’Adria percepisce questi pensieri che circolano tra loro, e si rilassa fino a accendersi una sigaretta. È l’unica che fuma. Una tirata dopo l’altra nota la riprovazione delle sue compagne, sono occhiate che stanno tra il severo di quella signora sui sessanta anni col vestito da lavoro nero, probabilmente in lutto, i capelli bianchi raccolti a crocchia sotto il fazzoletto ben serrato, e quello acido tra l’invidia e l’ira di una formosa ragazza bruna che L’Adria ribattezza all’istante pantera del materasso, quelle che a ballare sembra vogliano mangiarsi tutti gli uomini presenti, e spazzare via sculettando tutte le donne. Si stupisce L’Adria, sembrano avercela più con lei, di quanto ce l’abbiano con le due esseesse col fucile tra le ginocchia che le tengono prigioniere.
Seppure ella sappia che non è comune, forse nemmeno conveniente, che una ragazza tanto giovane fumi in pubblico, le pare francamente troppo questo atteggiamento di rimprovero nei suoi confronti, quasi avesse violato non si sa bene quale regola d’etichetta e/o di buona educazione, dopotutto stanno dentro un lurido camion e puzzolente, guardate a vista da uomini armati fino ai denti e su cui girano le voci più sinistre, andassero a farsi fottere magari è l’ultima sigaretta del condannato a morte, pensa sentendosi un filo melodrammatica. Nonchè all’istante stupida. Per una che non vuole farsi notare, accendersi una sigaretta in una situazione del genere non è proprio il gesto adatto. Però intanto i soldati neri mica l’avevano impedita, insomma persino le essesse sembravano rispettare il vizio del fumo, il che le parve una buona notizia, la prima in una mattina piuttosto disgraziata.
L’Adria aveva cominciato a succhiare sigarette fin da ragazzina e ormai non riusciva a resistere, quella accesa nel cassone del camion le era saltata in bocca quasi senza che se ne accorgesse, doveva starci attenta, imparare a tenere il vizio sotto controllo, ancora non sapendo che nel corso del tempo quando ogni controllo fu perduto, sarebbe arrivata a cumulare centinaia di pacchetti, Marlboro rosse belle forti come si conviene ai fumatori inveterati. Nel tumulto di pensieri tanto diversi percepisce le sue mani senza un tremito con una strana, data la situazione, euforia, la paura restando come un coccodrillo a pelo d’acqua, ma lontano laggiù in Africa. L’Adria non si era mai incontrata con un coccodrillo, ma questa fu l’immagine che le venne in mente, il bagno lei lo faceva a Puntamarina o a Porto Corsini, dove di coccodrilli non c’era mai stata neppure l’ombra, al massimo potevi incrociare un banco di saraghine, la paura restava ma la pelle i nervi il cervello erano eccitati, tesi e eccitati, sensibile dalla punta delle dita a quella dei capelli le venne fugace l’idea dell’amore.
Da quanto tempo era rinchiusa? Non deve essere molto.
C’era voluto un po’ perché si riprendesse quando la avevano separata dalle altre, ricominciando a misurare secondi e minuti. Forse era passata un’ora, o mezza chissà, l’attesa rendeva il tempo più lungo, quasi immobile, un tempo pietrificato. Il sottoscala non è scomodo, mancava di luce ma la rendevano inquieta soprattutto i rumori: il suono di pesanti stivali, un grido acuto, poi un cupo singhiozzo, qualcuno che ride, uno strascicare di passi, un paio di bestemmie. E lunghi intervalli di silenzio, una cappa di nebbia densa di mostri nascosti che potevano da un momento all’altro sbucare, orribili.
Avevano viaggiato per mezz’ora, minuto più minuto meno, poi il camion si ferma e il cuore di tutte pure, per un istante immobil quindi salta loro in bocca. Il telone viene sollevato e fuori non c’è nessuna mitraglia puntata in posizione di sparo a aspettarle, è già un sollievo. Cominciano a scendere, qualcuna saltando, qualcun’altra scivolando appoggiata al braccio di uno dei soldati quasi a chiedere inconsciamente conforto e protezione, non si sa mai anche le essesse devono pure avere un cuore, o almeno un cazzo anche se questi proprio non sembrano.
Sono nell’aia di una casa colonica, grande, abbastanza nuova con tutte le porte spalancate, senza traccia degli abitanti almeno alla vista, l’aia è spettrale senza animali, senza contadini, senza l’atzdora, una casa contadina senza l’atzdora è morta, anche il sole sembra non scaldare, oscurato dalle divise brune, gli uomini neri, soltanto soldati armati e prigionieri popolano lo spazio, però nessuno pende impiccato dagli alberi o giace a terra fucilato. Le donne inquadrate per due vengono avviate al granaio. Tendono a sparpagliarsi ma i solldati le tengono in riga con la canna del fucile.
L’Adria ha una gran voglia di correre, forse è l’ultima occasione buona, ma si trattiene.
L’aia è piena di divise brune, non riuscirebbe a fare dieci metri, allora cammina al passo, ripetendosi come una filastrocca, stai calma sei una come le altre stai calma sei una come altre.
Non proprio una come le altre, perché a un certo punto la vengono a prendere, la fanno uscire dal granaio e entrare nella casa rinchiudendola nel sottoscala. Qualche decina di passi che lei ha cercato di rallentare, ma la spingono col calcio del fucile “schnell schnell” gridano. Nel granaio ha cercato di parlare con le altre, deve inventare una storia credibile per quando sarà interrogata, se lo sarà, che ci faceva lì, chi era per lei Zalet, così senza darlo a vedere interroga le sue compagne, e anche le donne della casa, loro pure rinchiuse prigioniere, incamerando informazioni che potranno rivelarsi preziose, e comunque intanto non resta inerte in balia del destino, tenta di costruire la sua salvezza che non sarà facile, dipende dal tipo di interrogatorio.
L’Adria riesce a pensare alla morte, anche la sua morte con distacco se non serenità, insomma senza troppa paura. La tortura invece la terrorizza, l’idea che le violino il corpo, gli abissi di dolore e umiliazione. Se pensa a se stessa nuda inerme di fronte alle divise nere le scoppia il cervello, le batte tanto sulle pareti della scatola cranica da farle male, per un momento è tentata di uccidersi adesso che ancora può farlo.
Il possibile suicidio è un caldo e buon compagno, allontana il terrore, tiene a bada la tortura.
Con quei passaggi fulminei da uno stato all’altro tipici della estrema giovinezza, L’Adria pensa a Zalet, chissà dove sarà, e subito dopo a suo fratello Barilot, uno dei comandanti della Garibaldi, che si arrabbierà mica poco. Con le sviste rispetto alla disciplina non c’andava leggero; qualcuno finì a rischio del plotone d’esecuzione, e seppure graziato in seguito, si era comunque cagato addosso, diventando la barzelletta di tutti i partigiani.
L’Adria e Zalet non avrebbero dovuto stare in sella a quella motocicletta, scorrazzando per la bassa ravennate come fidanzati, che neanche lo erano. Il compito assegnato era semplice, arrivare ai limiti della zona partigiana controllando avamposti e vie di comunicazione, un semplice giro per i gruppi e le basi tra i paesi della bassa anche per vedere come stavano, se avevano bisogno di qualcosa, o lettere da spedire o qualche saluto da mandare alla mamma o alla fidanzata, perché non salutassero mai i padri L’Adria non l’aveva capito, muovendosi con prudenza.
Ma loro sconsiderati, una volta giunti al confine dell’area ragionevolmente sicura, per il profumo dei fiori o d’erba o qualcosa che vibrava o la moto che non si voleva fermare o l’incoscienza dei loro vent’anni, Zalet in realtà era più vecchio ma con L’Adria appesa dietro, incollata quando piegava in curva, gli sembrava di volare e non voleva smettere, avevano continuata verso S. Alberto dove avrebbero potuto bersi un bicchiere e magari chissà con L’Adria. Invece quel maledetto posto di blocco li inchiodò, e i maschi finirono ammassati in cantina, un grande scantinato in mezzo alle botti e alle travi, da dove in altri tempi pendevano gli insaccati, le trecce d’aglio e di cipolle, col profumo che ancora aleggiava.
Erano una cinquantina d’uomini anche il capo famiglia e gli altri della casa dove si erano acquartierati i soldati neri, già perquisita alle spicce senza distruggere troppo, giusto qualche porta scardinata e un paio d’armadi svuotati.
Tutti speravano non ci fosse nessuno troppo sospetto rinchiuso con loro, si sentivano raccontare storie da paura,
quei tedeschi lì ammazzavano come far finta di niente, però pareva ai più che fosse un rastrellamento d’ordinaria amministrazione, lo disse uno che faceva il ragioniere e annuirono in molti, per ora i tognini non avevano sparato a nessuno e gli angloamericani stavano avanzando, dove fossero di preciso nessuno sapeva ma stando a Radio Londra non troppo lontani, i tedeschi ormai la guerra la stavano perdendo, perchè avrebbero dovuto fare una strage di civili.
Oddio una parola di troppo e poteva succedere di tutto, comunque tanto valeva cercare di non diventare matti a pensarci così qualcuno tirò fuori un mazzo di carte perchè una bella partita di briscola fa sempre bene, tiene a bada l’angoscia, che anche senza ammazzarli potevano sempre deportarli al Nord o addirittura in Germania come ostaggi o lavoratori forzati. Qualcun altro cominciò a giocare alla morra, e forse per scaricare la tensione tutti cominciarono a parlare coi vicini, così del tempo che era bello, della campagna, della bicicletta lasciata incustodita e speriamo che nessuno me la rubi, a io sol quela, c’ho solo quella, mai accennando ai figli o alle mogli, neppure agli amici e se qualcosa era detto, a mezza bocca sussurrato sempre senza nomi, nessuna parola che sentisse lontanamente di politica. Soltanto uno si lasciò scappare, meglio i tedeschi dei fascisti e per poco non si beccò un cazzotto in bocca, era giovane forse ingenuo, scemo per dirla chiara o un provocatore, e cominciarono a stargli alla larga.
Intanto L’Adria nel sottoscala cautamente saggia la porta, di legno massiccio ben chiusa dall’esterno, probabilmente con un catenaccio, le sembra di gelare lì dentro eppure fuori era una gran bella giornata sul fare della primavera e nemmeno un’ora prima si stava godendo la corsa in motocicletta finchè, oltre la curva poco prima di S. Alberto, non era comparso improvviso quel posto di blocco fitto di uniformi nere col teschio, un incubo e s’accovaccia per terra, le gambe rannicchiate strette, le braccia incrociate sul petto, la testa appoggiata al muro, finché non li sentì armeggiare alla porta che si spalancò mentre lei si drizzava in piedi, pesante come un macigno era il suo giovane corpo, però senza tremiti.
Entrarono in due coi moschetti, prendendola sottobraccio, mica violenti ma secchi e duri,
un grumo di fredda brutalità che l’avvolse e strinse togliendole ogni spazio, quasi non riusciva a respirare mentre il cervello le batteva furiosamente in testa, aveva l’impressione che volesse fuoriuscire dalla scatola cranica fuggendo lontano da lì, abbandonando il corpo prigioniero al suo destino. Per un momento rischiò di impazzire, percepì la follia invaderla e decise di respirare. Svuotò i polmoni dall’aria del sottoscala, sbattè gli occhi per abituarli alla luce improvvisa, e inspirò. Dallo stomaco al petto sentì l’aria fluire in lei, gioiosa: poteva respirare, era ancora viva.
Nel cantinone degli uomini Zalet prima si libera di lettere indirizzi e quant’altro potesse diventare una traccia, per fortuna non lo hanno perquisito, poi pensa a scappare. Ha la massima fiducia nei suoi documenti falsi, che poi sono veri, carte d’identità in bianco requisite dai partigiani, Zalet non ama dire: rubate, falsi sono solo il nome e cognome, ma se riesce a andarsene alla chetichella è molto meglio, in quelle cantine c’è sempre una finestra, i tognini magari non l’hanno vista, magari è senza sbarre. E L’Adria. Che fine farà L’Adria, abbandonata. L’Adria è giovane, una bella ragazza romagnola dalle lunghe gambe, forse non sarebbe stata interrogata come una ribelle o sospetta tale, una banditen, e se anche fosse stato non l’avrebbero ammazzata subito, pensò provandone vergogna ma anche un certo sollievo, forse si sarebbero limitati a… per le donne era particolarmente dura e lunga la via dell’orrore, non riusciva nemmeno a immaginarsela L’Adria sola in mezzo a quei soldati, quanti saranno stati.
Bestemmiò piano e cercando di non pensarci tornò a concentrarsi sulle possibili vie di fuga, prima riusciva a uscire di lì meglio sarebbe stato anche per L’Adria. Che invece ebbe pochi dubbi, dopo il primo sgomento, un vero e proprio attimo di terrore con una invincibile voglia di urinare:
davano la caccia ai partigiani e lei era una partigiana, il suo destino le apparve nitido come due e due fanno quattro.
Non voleva essere torturata e nemmeno morire, avrebbe fatto quasi tutto per evitarlo. Quasi. Improvvisamente si rese conto che non conosceva il nome falso di Zalet, quello che stava scritto sulla sua carta d’identità, una bella pataccata come si dice in Romagna, una di quelle trascuratezze di cui non t’accorgi quando tutto va liscio, ma che ti cascano addosso come massi quando le cose vanno storte, e che nel caso presente poteva portarla dritta dritta se non impiccata o fucilata sul posto, quasi certamente in prigione e lì avrebbe incontrato i fascisti, sarebbero stati loro bastardi in camicia nera che odiava con tutto il cuore, fin dalla nascita si può dire, a interrogarla.
Per parare il colpo pensò se poteva arrivare fino a dire il vero nome di Zalet, senza nuocere, nel caso glielo avessero chiesto, dopotutto erano incappati nel posto di blocco scorazzando in moto per la campagna, come morosi che cercano un buon posto per andare in camporella, l’amore si fa anche durante la guerra, anzi tanto più, che ogni giorno può essere l’ultimo, insomma buttandola sul malizioso e sentimentale ma chissà se le esseesse ci sentivano da quell’orecchio fino a distrarsi, dubitava fortemente, perché se poi avessero confrontato il nome da lei fornito e quello che figurava sui documenti di Zalet sarebbero stati per entrambi brutti momenti. Insomma non poteva fare il vero nome, di Zalet, tantomeno il suo poteva dir loro, e ancora era fortunata che non fosse presente nessun fascista di Ravenna, non erano pochi quelli che la conoscevano di faccia, di nome e di militanza, la cercavano da quel poi, e lei rischiava di finirgli in bocca per una passeggiata, lei abituata alle severe regole della clandestinità e della cospirazione antifascista fin da quando era bambina. Roba da non credere.
In questo vicolo cieco evitò di battere i denti, evitò di tremare, evitò di muoversi, camminava al fianco delle uniformi nere col teschio, ma dentro, dentro era immobile, il corpo si era fermato, mentre la testa frullava impazzita immaginando una dopo l’altra le vie di scampo, una più improbabile dell’altra.
Però la guerra partigiana era imprevedibile, chissà.
D’altra parte a cos’altro poteva attaccarsi se non a una magia dei compagni per liberarla. Le venne in mente Lina l’amica e compagna del cuore, fu quasi per mettersi a piangere, no questo no, di fronte alle teste di morto no, questa soddisfazione non gliela avrebbe data. I suoi pensieri presero tutto un altro corso, quell’uomo che amava, la gita in bicicletta poco prima della guerra o sull’orlo, la pesca delle saraghine col bilancione, quelle carezze fugaci dei giovanotti a ballare, quella volta quando uno le strinse la nuca e lei, lei si bagnò tutta, proprio lì, tra le gambe, per un momento pensò di essersi fatta la pipì addosso prima di capire che era tutt’altra cosa, forse fu la prima volta che sentì la felicità.
Quanti anni avrà avuto, non riusciva a ricordarselo, quattordici, sedici o di più, improvvisamente le sembrò la cosa più importante del mondo, trovare il giorno, l’ora il luogo di quel piacere tutto nuovo arrivato senza che lei ne sapesse nulla, no qualcosa le avevano raccontato e non era certo una santarella e nemmeno una gatta morta ma che fosse così liquido e si riversasse dappertutto come una alluvione ecco, quando arrivava la piena nelle valli, questo proprio non se lo aspettava, dalla testa ai piedi scoprendosi bollente e piena di brividi. Per l’uomo non ebbe bisogno di alcuno sforzo, lo aveva vivido davanti agli occhi, e dire che lui allora non s’accorse di nulla come lei scoperse qualche anno dopo: le aveva semplicemente preso la nuca così senza una ragione, un gesto di possesso naturale e inavvertito che l’aveva travolta e sommersa, una grande onda imprevista. Quelle onde anomale che solitarie s’avanzano nel mare per il resto del tutto calmo, e ti scaravoltano che non te le dimentichi più, o ne stai alla larga o ne sei preso, e per il resto della vita ruzzoli con loro anche quando se ne sono andate.
Avvolta nell’impermeabile L’Adria aspetta, con le gambe rannicchiate sotto di lei, seduta a terra, scrutando il muro, e la luce incerta, i soldati col fucile e il teschio che la sovrastano. Vorrebbe avere uno specchio, un pettine, un catino d’acqua per lavarsi, tra poco sarà il suo momento, qualcuno darà un ordine e lei salirà le scale un gradino dopo l’altro, tentando di essere leggiadra come una farfalla, ma è soltanto una giovane giovane ragazza, e ha tanta tanta paura quando la porta si apre e lei mette piede nella stanza, luminosa con le finestre spalancate. Tutto quel sole le ferisce gli occhi, si ferma incerta sulla soglia ascolta una musica, le sembra di sognare, forse è già nell’aldilà, morta senza accorgersene. La voce parla un impeccabile italiano, al pianoforte siede di spalle un giovane biondo nell’uniforme nera, venga avanti, non ho niente da chiederle tanto so che lei è una partigiana, che siete tutti partigiani, il suo amico della motocicletta è scappato.
In mezzo alle note le si gela il sangue, è rimasta sola di fronte al male.
L’Adria respira lenta preparandosi a quel che accadrà.
L’Adria era mia madre. Questa storia me l’ha raccontata a spizzichi e bocconi, fin da quando avevo sette anni, forse meno. Da quella stanza uscì viva, altrimenti non sarei qui. Cosa in quella stanza accadde non disse mai.