“Questo libro racconta un ossimoro: un quartiere povero, ”periferico”, quasi al centro della città più ricca d’Italia; un quadrilatero di edilizia popolare, un quarto del quale è stato negli anni privatizzato; un settore urbano del passato operaio, nell’era neoliberale della terziarizzazione delle attività produttive e della fllessibilizzazione dei rapporti di lavoro. Il quartiere di chiama San Siro, la città naturalmente è Milano”.
Inizia così Barrio San Siro – Interpretare la violenza a Milano, il libro di Paolo Grassi, Franco Angeli editore, che l’antropologo urbano ha scritto per tirare le fila dei suoi anni di ricerca nel quartiere più liminale della Milano che si rigenera a colpi di slogan e società di comunicazione, si gentrifica nei fatti, si giustifica nelle sue narrazioni auto celebrative e assolutorie.
Non sono molti, al mondo, quartieri che portano nomi che li rendono conosciuti ovunque, considerato il fascino di Inter e Milan e del loro stadio celebrato e famoso, ma che finiscono per essere quasi sconosciuti alla stessa città dove si trovano. O meglio, molto raccontati, ma per stereotipi e cliché, duri a morire, facili a farsi media.
Paolo Grassi, dopo ricerche sul campo in Repubblica Domenicana, Guatemala e Italia, attualmente docente a contratto presso l’Università di Padova e ricercatore a Milano Bicocca, arriva a San Siro con il progetto Mapping San Siro, un gruppo di ricerca azione che da anni – coordinato dalla professoressa Francesca Cognetti – lavora sul quartiere.
Questo libro raccoglie cinque anni di ricerca sul campo, con una frequentazione quotidiana, che intreccia un dentro (la stessa sede in quartiere di Mapping, con la sua vetrina in strada, e il rapporto con i residenti) e un fuori (il rigore della ricerca, il non essere un residente).
Grassi riesce, pur in un testo che è e resta scientifico, a lasciarsi contaminare dal racconto, dai volti, dalle storie, dai nomi di quelle persone che abitano San Siro e che ne determinano i percorsi umani – urbani, in un’osmosi difficile da sciogliere: siamo quel che lo spazio che abitiamo determina, o determiniamo lo spazio che abitiamo?
Alla fine Grassi, con interviste e dati, intrecciando la realtà quotidiana del quartiere e i progetti dei piani periferie delle amministrazioni locali e nazionali, restituisce un quadro complesso e affascinante, ma non retorico né idealizzato.
“La violenza avviene nello spazio, compreso quello urbano, ma lo spazio a sua volta – se concepito in maniera relazionale – piò considerarsi agente di violenza, può essere violento, per così dire”, scrive Grassi. “Un muro costruito lungo un confine può fornire uno sfondo, un palcoscenico per la messa in scena di diverse forme di brutalità. Contemporaneamente, quello stesso muro può influenzare le pratiche degli attori sociali”.
E’ proprio su questo confine, che è superiore a quello fisico. San Siro è raccontato come una periferia, ma nei fatti e nella logistica non lo è, ma è raccontato così. Come se fosse un destino, più che una situazione contingente. San Siro è un mondo, che racconta le disuguaglianze meglio di molti altri, tra case popolari cadenti e occupate e villette sfarzose divise da una piazza. Basta questo schema, però, per raccontarlo.
Secondo Grassi no, e da quando come Q Code – assieme ad altre realtà della società civile – abitiamo il quartiere, in uno spazio vinto con un bando pubblico, ne siamo testimoni quotidiani. C’è nel racconto, e nello stigma, sul quartiere, anche il contributo di un auto racconto. Le stesse dinamiche narrative che irritano i residenti, sono poi quelle che vengono però proiettate a volte dagli stessi verso l’esterno. Come se il racconto delle periferie fosse una profezia che si auto avvera.
In tutto questo, il centro del lavoro di ricerca di Grassi è quella “sottile connessione che lega la violenza allo spazio urbano”. Invitando a una profonda – e dimostrata – “riconsiderazione di questi due concetti e della loro interrelazione. Come per la violenza, così lo spazio urbano è costruito da qualcosa che trascende la dimensione micro – sociale, il qui e ora della ricerca sul campo”.
Il libro di Grassi ci conduce in un viaggio nel quartiere mondo, senza orientalismi, senza nascondersi dietro la spersonalizzazione della ricerca scientifica, alla ricerca degli impatti che quelle narrazioni – e le infinite promesse delle istituzioni – hanno contribuito a determinare, in un intreccio tra dentro – fuori del racconto che finisce per farsi metodo.
“San Siro emergerà come una configurazione socio – spaziale multiculturale, al tempo stesso epitome di condizioni globali, incrocio di interessi divergenti di attori sociali e istituzionali, risultato di una storia locale sfociata in un presente post – fordista”, spiega Grassi.
In fondo San Siro, quando lo si attraversa, con gli occhi del cronista, mostra tutta la sua controversa e complessa normalità. Ma proprio per questo, giorno dopo giorno, è interessante capire come si alimenta e auto alimenta il racconto di un quartiere che diventa sempre simbolo di qualcosa: il multiculturalismo, le diseguaglianze sociali, la speculazione edilizia che incombe sul quartiere, il degrado e l’abbandono, che però sono a volte parte dell’alimentare la stessa narrazione, dei raccontati e dei raccontanti.
San Siro, in fondo, è unico nella sua normalità. E’ speciale per come racconta il nostro tempo e la sua violenza di relazioni: tra persone, tra cittadini e istituzioni, tra istituzioni.
Concludendo con Grassi: “La violenza politicamente imposta che colpisce San Siro non prende tanto la forma dell’abbandono, quanto di ”un’attenzione selettiva” utilizzata strategicamente da questo o quell’attore istituzionale”. E proprio per questo, “San Siro non necessita di progetti a breve termine, ma di interventi strutturali”.
Che possono, e devono, passare o forse anche partire dall’auto racconto dei suoi residenti, che nella loro complessa diversità, possono ribaltare lo stigma in emblema. Prima che lo facciano altri, come si è potuto documentare in molti altri quartieri di Milano, dove dopo lo stigma è arrivata una rigenerazione della quale, però, non hanno beneficiato i residenti, ma nuovi abitanti che hanno potuto permettersi di vivere nel quartiere rigenerato di turno, con il suo hashtag per i social e gli agenti immobiliari.