Nelle ultime settimane, feroci nella loro vacuità, si sono addensate opinioni sulla guerra in Ucraina. Invece di offrire uno sguardo altro, una visione critica e complessa, ci pare che la presunta opposizione al ‘pensiero unico’ finisca per usarne la stessa grammatica.
Siamo convinti, da tempo, che la logica del ‘nemico del mio nemico è mio amico’ non ci appartenga. Per questo, e molto altro, teniamo viva – con gran fatica – una visione geopoetica, più che geopolitica.
L’aggressione russa all’Ucraina è feroce e inaccettabile. Non possiamo, come cronisti, non partire da qui. Come non potevamo farlo quando raccontavamo la guerra in Siria, dove un regime familistico non esita a usare armi chimiche pur di non perdere il potere. O quando il colonnello Gheddafi, a capo di un regime capace di uccidere quasi mille oppositori politici nelle carceri di Abu Salim, venne defenestrato da una rivoluzione.
Non capivamo allora, e non capiamo oggi, come possa essere possibile anteporre la propria visione geostrategica o ideologica – opposizione all’imperialismo americano e allo strumento Nato – alle legittime aspirazioni di milioni di siriani e di libici che reclamano, offrendo il loro corpo, una vita che valga la pena di essere vissuta. E gli interessi di altre potenze, arrivate a fagocitare quelle rivoluzioni, a infiltrarle, masticarle e sputarle via, non tolgono nulla a quei sogni.
Questo non significa una mancanza di consapevolezza. Proprio perché, da venti anni, siamo (come autori e come redazioni che abbiamo attraversato) stati tra le macerie dell’Afghanistan e dell’Iraq, o tra le testimonianze dell’America Latina e delle guerre del passato, riteniamo di poter reclamare il diritto a non dover ricevere lezioni di storia, di imperialismo e di geopolitica.
Ma proprio per quella coerenza che rende credibili i racconti e le visioni, non possiamo oggi accettare che il regime di Putin e l’imperialismo russo possano essere anche solo lontanamente accettabili.
Possiamo passare giorni e mesi interi a ragionare di distinguo e di zone d’ombre, anzi, sono quelle che preferiamo. Perché per noi il giornalismo è il racconto della complessità, non dà risposte, ma pone domande. E un buon giornalismo è sempre consapevole che non esistono poteri buoni.
Le accuse di nazismo e i richiami alla Resistenza italiana, in questo contesto, sono elementi di distrazione di massa. Già, in generale, l’utilizzo di categorie, contesti e periodi storici in altri momenti ci convincono poco, ma adesso diventa palese come vengano utilizzati solo in modo strumentale.
E che fare, allora? Difficile, ma questo non significa restare in silenzio, né ci nascondiamo dietro quel, che pur crediamo, ruolo del giornalismo, che non deve nascondere le sue opinioni, ma supportarle con i fatti, senza lanciarsi nell’immaginare soluzioni.
Il diritto a difendersi dei cittadini ucraini è sacrosanto, il dovere di sostenerli anche. Quello che possiamo discutere è se accanto al supporto umano e umanitario – doveroso – sia immaginabile anche un supporto militare.
Questo, nei modo e nei fini, è tema di doveroso dibattito, anche solo perché la nostra esperienza di guerra ci ha insegnato che le armi restano dove sono per anni, dalla Somalia all’Iraq, si perdono per strada e finiscono nelle mani sbagliate, dalla Siria all’Afghanistan.
Ma questo, mai, deve mettere in dubbio che l’Ucraina è vittima di una aggressione, che nessuna provocazione reale o presunta giustifica, come insegna il coinvolgimento russo – diretto o mediato attraverso i mercenari della Wagner – in contesti come quello siriano, libico e del Sahel, dove non c’era stata nessuna provocazione.
Il 2001, lo dicevamo per tempo, con la ‘guerra al terrorismo’ ha devastato tutto. Ha creato un mondo molto più insicuro di prima, ha generato molto più terrorismo (quello vero) di prima, ha silenziato nei media le legittime lotte di resistenza – come quella palestinese – mutandone il senso e la narrazione, ha generato un flusso enorme di profughi e sfollati nel mondo.
A questo si è risposto con una politica feroce di frontiere, che uccidono non solo le persone, ma anche i sogni di libertà che chi costruisce i muri ha promesso quando il muro era un altro.
E ha generato società sempre più razziste, capaci di reagire con cuore e solidarietà quando i profughi ci somigliano, ma odia e chiude le porte ai profughi asiatici e africani.
Quel deserto creato dalla politica estera degli Usa (e dalla fabbrica della paura che ha garantito carriere politiche) che dopo le armi e la morte si sono ritirati scomposti e sconfitti, ha generato un vuoto, dove nuovi satrapi come Putin, Erdogan, Assad cercano di portare a casa i loro obiettivi da disegni egemonici. Ed essere ritenuti oppositori degli Usa non deve renderli accettabili.
Attorno a noi sentiamo solo rumore. Dai reportage che finiscono, in una logica da influencer, per raccontare quasi solo i narratori, a una esaltazione senza senso di una parte, anche quando è quella aggredita come nel caso dell’Ucraina.
Sentiamo che non c’è più tempo, che è necessario allargare la platea del confronto, oltre quello che il mainstream lascia filtrare. Le voci ci sono, proveremo a raccoglierle e a raccontarle.
Terremo aperte le porte di Q Code, come sempre, perché questo magazine esiste per questo. Uno spazio per dare spazio e crediamo fortemente che esistono una serie di voci che restano a margine della polarizzazione che il sintetizzatore televisivo propone. Iniziamo noi, speriamo che rispondano in tanti, che potranno dire quel che vogliono – e ci mancherebbe altro – ma non negare la realtà, quello no, perché a volte ci sembra che il giornalismo abbia abdicato al suo ruolo chiave: verificare i fatti.
Non accetteremo negazionismi e complottismi, perché questi non sono opinioni da esprimere liberamente, ma menzogne che avvelenano il dibattito e ingannano i lettori. Per il resto non porremo altri limiti, proprio perché siamo convinti che ci siano molte altre voci da ascoltare in questo rumore.