Quello che mi resta è anzitutto lo scarto, il contrasto tra il buio della sala cinematografica e la luce incomprensibile di questa città settentrionale. Brema d’estate sembra rischiararsi da sé, senza aiuti dal cielo, generando calore direttamente dalle strade, dai palazzi, da fuochi invisibili e palpitanti sotto i marciapiedi. Andare al cinema è un’esperienza più che straniante: si precipita in un’oscurità di storie e mondi paralleli, si riemerge in una città che conosce solo un perpetuo mattino. I sensi illanguidiscono in questo contrasto e a volte, per brevi momenti, viene da chiedersi quale delle due dimensioni sia reale.
Proprio di tempo, di soglie e confini incerti ci parla il cinema di Jonas Carpignano. I tre lungometraggi finora realizzati dal regista italo-americano non sono che tre diversi affreschi dell’adolescenza: se Mediterranea ci racconta le fatiche di Ayiva, che lascia il Burkina Faso e attraversa il deserto e il mare per arrivare in Italia, e A Ciambra ci mostra l’irrequieto dodicenne Pio, che vive e litiga tra i vicoli della Ciambra, il quartiere rom di Gioia Tauro, è nell’ultimo film, A Chiara, che la dolorosa iniziazione all’età adulta emerge con maggior nitidezza.
Presentato alla 74ª edizione del Festival di Cannes, A Chiara è da poco uscito nelle sale tedesche e ha già raccolto il plauso di critica e pubblico, un dato che fa ben sperare soprattutto per il modo in cui Carpignano racconta il Meridione italiano e le sue problematiche, tenendosi ben alla larga dagli stereotipi che infestano l’immaginario contemporaneo.
Gioia Tauro è ancora lo sfondo della vicenda, o meglio, è la materia stessa di cui è infuso il film: da anni il regista ha infatti scelto di stanziarsi in questa cittadina calabrese nota alle cronache perlopiù come una realtà difficile, ma lo sguardo che porta su questo luogo non è quello del reporter né del turista privilegiato, piuttosto di chi si è fatto accettare da una comunità e desidera raccontarla, con attenzione ma anche con una viva crudezza – basti pensare al suono in presa diretta, o alla macchina da presa sempre ancorata ai corpi degli attori.
Chiara ha quindici anni e il suo mondo coincide con le persone che ha intorno: con le amiche, ma soprattutto con i genitori e gli innumerevoli parenti. Il film si apre proprio con i festeggiamenti per il diciottesimo compleanno della sorella della protagonista, un rito a cui partecipa l’intera famiglia; il fatto che le due attrici siano sorelle per davvero, così come i genitori sono i loro veri genitori, non è un dato secondario. Come già accadeva in A Ciambra, Carpignano porta un’intera famiglia sullo schermo, e alle persone/personaggi chiede di interpretare nient’altro che sé stessi.
Una scelta anche rischiosa, perché a tratti è evidente lo scoglio che separa la performance di Chiara/Swamy Rotolo, sempre vivida e credibile, da quella di altri interpreti, eppure viene il dubbio che lavorare con attori non professionisti per Carpignano sia non solo una scelta registica, quanto una necessità: è che senza quelle persone i suoi film proprio non nascerebbero. È che le storie non si scrivono soltanto nella propria stanza, reclusi in una solitudine inviolabile, ma anche grazie a tutta la vita che ci si scaraventa addosso, grazie a dialoghi o scene a cui assistiamo per caso e che poi proliferano nella nostra immaginazione, in maniera confusa e inaspettata.
Muovendosi in un ambiguo e bellissimo confine tra documentario e finzione, cucendo le storie intorno alle persone che incontra, Carpignano esibisce non solo il racconto vero e proprio ma anche la materia, le voci, i corpi che l’hanno ispirato.
I corpi, appunto. Nei primi minuti del film, Chiara è una comparsa tra tante, una figura difficile da distinguere nelle scene affollate e rumorose della festa di compleanno; la cogliamo per brevi momenti, poi scompare su una pista da ballo o lungo una tavola imbandita, in un esubero di voci, di risate, brindisi solenni. Una fusione che si spezza a festa conclusa, quando, in piena notte, la macchina di famiglia prende fuoco, e il padre scompare. “Dov’è papà?” chiede Chiara, allarmata; è una domanda a cui nessuno risponderà per tutto il film – la madre e la sorella più grande, specialmente, le opporranno un’indifferenza ostinata.
“Latitante” non è una parola che appartiene al vocabolario di Chiara, eppure è quella che le restituiscono i telegiornali e le chiacchere di paese: scoprire chi è davvero suo padre, dare un senso a questa latitanza, è il compito che le spetta, il crinale lungo cui si gioca l’ingresso nella vita adulta.
Dare un sottotesto alla mafia, renderla solo uno dei livelli del racconto e nemmeno il più importante all’interno di quello che in fin dei conti è un viaggio di formazione, è qualcosa che distingue A Chiara da tanti film ma anche da tanti romanzi che hanno provato a raccontarci la criminalità in questi anni. Gli stessi personaggi hanno ben poco da spartire con gli archetipi del genere: il padre non è un criminale sanguinario ma un uomo scialbo e riservato, la madre non è la caparbia “donna del boss” ma una casalinga che non vuole problemi, e l’omertà è un’inclinazione cupa e malinconica – non è fatta di codici d’onore, sparatorie notturne o patti scritti col sangue, forse perché davvero a Carpignano interessa raccontare i margini, le vite alla fine di ogni racconto codificato, dove non esistono eroi o antagonisti, paladini della legalità o criminali fascinosi, ma solo esseri umani con le loro dolorosissime contraddizioni.
Per l’audacia con cui riscrive un genere, A Chiara può ricordare The Witch di Robert Eggers, un altro raffinato racconto di formazione, che sfrutta gli stilemi del genere horror per parlare dell’inquieto passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta: in un cupo e imprecisato Medioevo, una famiglia viene esiliata al confine con il bosco, infestato da presenze inquietanti, e la figlia maggiore viene presto ritenuta responsabile delle sciagure che si abbattono sulla famiglia.
C’è davvero un mistero nell’adolescenza, un sortilegio che ha a che fare tanto con i cambiamenti corporei quanto con un’alterazione più radicale e profonda, quasi alchemica.
A Chiara non ci parla di stregoneria, non sfocia nel fantastico, eppure accadono brevi scene oniriche, piccoli strappi nel realismo ostinato di Carpignano, dove la casa materna rivela ombre, storture, squarci inaspettati.
Quello che mi resta è allora l’impressione di aver condiviso del tempo, e un’intimità quasi fisica con la protagonista, ma poi, nel buio sospeso della sala, è germinato anche altro – il sospetto che i racconti di adolescenza non abbiano mai a che fare solo con l’adolescenza, e che l’ingresso nell’età adulta sia un rito da rinnovare perpetuamente, perché perpetuamente ci troviamo dinanzi a delle soglie, piccole o grandi che siano, oltre le quali non possiamo che procedere soli, senza padri né maestri, e però vivi e liberi come altrimenti non potremmo essere.