Erano otto partiti per circa 14 milioni di elettori. Alla fine, hanno vinto i vincitori di sempre, il Movimento Popular de Libertação de Angola (MPLA), ma con una maggioranza striminzita (51%) e uno strascico polemico che potrebbe riaccendere vecchi fuochi mai spenti del tutto.
È il risultato delle elezioni dello scorso 24 agosto in Angola. Cadevano a trent’anni di distanza dal primo suffragio con schede pluripartitiche, del 1992, frutto di accordi firmati in Portogallo un anno prima, che purtroppo rappresentarono solo un breve intervallo nella lunga guerra civile esplosa dopo la conquista dell’indipendenza da Lisbona, nel 1975.
Infatti, non si può dire che siano stati trent’anni di democrazia quelli vissuti da questo grande Paese dell’Africa lusofona, poco più di trenta milioni di abitanti su una superficie enorme e ricchissima di risorse, a cominciare dal petrolio, di cui è il secondo produttore africano (non è un caso se il ministro Di Maio è volato laggiù due volte in due mesi, a marzo e aprile, la prima con il capo dell’ENI Descalzi, la seconda senza Draghi solo perché quest’ultimo aveva il covid).
Proprio il risultato, contestato, delle elezioni del ’92 riaprì le ostilità fra MPLA e UNITA, i due principali partiti reduci della guerra anticoloniale.
Lo scontro armato si sarebbe concluso dieci anni più tardi con l’uccisione di Jonas Savimbi e la conversione definitiva dell’UNITA nel maggior partito di opposizione, che ora, in un’Angola pacificata ma non risollevata da un’endemica crisi economica e sociale, cerca di sottrarre l’esclusività della gestione del potere al partito-stato che fu di Agostinho Neto prima, di José Eduardo dos Santos poi, ed è ora di João Lourenço.
Per quest’ultimo, che secondo la legge, in quanto leader della lista più votata, diventa automaticamente presidente della Repubblica, si tratta di una riconferma, ma in netto calo rispetto al 2017, quando vinse con il 61%.
Il problema di Lourenço è che rischia di passare alla storia come il riformatore timido che non ha più la forza di tutto l’apparato, ma non riesce a conquistare il consenso del popolo. Aveva avviato una specie di nuovo corso mettendo da parte l’entourage familistico e affaristico che si era incistato nelle strutture di potere degli ultimi decenni.
Tuttavia, come generale dell’esercito ed ex ministro della Difesa, anche lui proviene da quell’ambiente, e non è ancora chiaro dove questo suo nuovo corso porterà quello che è ancora uno dei Paesi più disuguali al mondo. Basterebbe lasciar parlare i dati dell’Afrobarometro e aggiungere che una delle grandi promesse di questa campagna elettorale era l’acqua corrente per milioni di cittadini, e non solo in province remote, bensì nella capitale, Luanda.
Lo strascico polemico delle ultime ore viene dal fatto che il candidato dell’UNITA, Adalberto Costa Jr, ha accusato la Commissione elettorale nazionale di brogli, ha quindi respinto il verdetto e ha chiesto agli angolani di restare calmi, che è quel che si dice sempre sugli aerei quando è in arrivo una turbolenza.
La guerra civile se la ricordano i più vecchi, ma in Angola il 60% della popolazione ha meno di 25 anni ed è probabilmente lì che l’UNITA ha pescato nuovi voti per la sua rimonta.
Anche stando ai dati ufficiali, infatti, il partito prenderebbe il 44% (contro il 26% di cinque anni fa) e stravince proprio nella capitale, da sempre roccaforte del partito al potere, ma anche la città dove era più difficile fare brogli a causa di una maggiore presenza di osservatori internazionali e di una maggiore mobilitazione popolare, che ha risposto alle sollecitazioni di Costa Jr presidiando i seggi fino alla fine con dei sit-in, a dispetto del modus operandi notoriamente poco ortodosso della polizia angolana.
Altri membri della commissione elettorale si sono in queste ore dissociati dai risultati ufficiali e adesso le opposizioni chiedono un riconteggio a carico di una commissione internazionale, ma difficilmente la proposta verrà accettata dai vincitori. Né sembra percorribile la via giudiziaria, con i tribunali angolani non proprio famosi per la loro indipendenza da un partito che da quasi mezzo secolo si confonde con il resto della struttura istituzionale.
A gettare prima benzina e poi acqua sul fuoco, nel frattempo, ci si è messo addirittura l’ex presidente José Eduardo dos Santos, che dal 1979 al 2017 fu tra i più longevi autocrati africani. Il tutto a sua insaputa, visto che era morto l’8 luglio e attendeva solo una degna sepoltura.
Zé Dú (come era popolarmente noto) si è spento in una clinica di Barcellona e il suo corpo esanime è rimasto lì stazionato più di un mese, per rientrare solo il 20 agosto, previa autorizzazione di un tribunale spagnolo. La salma del padre-patriarca della nazione era infatti diventata oggetto di una contesa fra l’ultima moglie e i suoi tre figli, i quali, spalleggiati dal MPLA, lo reclamavano contro il volere dei cinque figli dei due precedenti matrimoni, tutti più o meno coinvolti nella gestione del potere durante la presidenza del padre e oggi vivamente sconsigliati di metter piede sul patrio suolo.
Fra costoro, la più discreta, come sempre, Isabel dos Santos, fino a qualche anno fa data da Forbes come la donna più ricca d’Africa e da un po’ di tempo nei guai con la giustizia di diversi Paesi. Più esuberante e agguerrita Tchizé dos Santos, che in tv aveva persino ventilato l’ipotesi di assassinio politico, scatenando quasi una rivolta popolare a Luanda, dove diversi gruppi di manifestanti sono scesi in piazza al grido di “hanno ammazzato Zé Dú”.
I funerali di stato si sono svolti solo ieri, 28 agosto, con un nutrito corteo di alti dignitari internazionali avvolti da un clima di tensione palpabile e una strana nostalgia per il lungo regno di un re che in fondo avrebbe ben pochi motivi per essere amato. Forse la prova più evidente che l’esperimento transitorio di João Lourenço non sta funzionando.