Lungo la spiaggia di Siderno, cittadina in provincia di Reggio Calabria, c’è una barca a vela abbandonata. Alta 24 metri, due alberi, rimane arenata sul lungomare. I pescatori ci pescano intorno, chi passeggia sul lungomare rientra verso la spiaggia evitando quel tratto, per poi tornare vicino l’acqua. Chi vive a Siderno si è abituato della presenza della barca all’interno del paesaggio: è lì dai primi di maggio e ci è rimasta per tutta l’estate. Ci sono dei vestiti sparsi all’interno, la prua mostra i primi segni di ruggine.
Questa barca racconta una storia, quella di 109 persone partite dalla Turchia e arrivate in Calabria, dopo cinque giorni circa di navigazione. Racconta di persone provenienti da Iran, Afghanistan e Pakistan, le cui vite si sono incrociate nelle coste turche, in partenza per l’Europa. Dopo giorni e notti passate in balìa del mare, della fame, e della sete sono sbarcati la notte del 6 maggio a Siderno. In 107 sono scesi dalla nave, due corpi sono stati ritrovati poco dopo, restituiti cadaveri dalle onde del mare.
Questa barca racconta più di una storia, in realtà. Qui, e lungo la costa calabra, dall’inizio del 2022 sono sbarcate oltre 14mila persone. È uno scenario che intreccia la vita di tanti migranti che tentano di arrivare in Europa dalla Turchia, attraversando il mare, con quella delle cittadine marittime nel sud della Calabria. Provengono principalmente da Siria, Libano, Iraq, Afghanistan, Iran, Bangladesh e Pakistan, e poggiano i piedi qui, nei pressi di Reggio Calabria, Roccella Ionica e Crotone.
C’è chi parte addirittura dal Libano, in rari casi dalla Siria. Chi salpa dalle coste turche passa circa cinque giorni di navigazione, dal Libano almeno 7/8 giorni. Queste tempistiche non considerano i possibili intoppi: perdersi in mezzo al mare, finire le scorte di benzina, avere guasti al motore. In questi casi, le barche fortunate riescono a sbarcare, anche dopo dieci, dodici o quindici giorni. Altre non riusciranno mai ad arrivare.
Questa rotta è storicamente via di migrazione, parallela a quella balcanica. Nel 2020, gli arrivi sono stati circa 1250, mentre nel 2021 5050. Quest’anno invece si è già registrato oltre il doppio degli arrivi.
Il viaggio di Osman, dall’Afghanistan all’Italia
Osman è un giovane afghano pashtun, arrivato a Reggio Calabria nel febbraio del 2020 partendo dal porto di Smirne, in Turchia. Il suo viaggio inizia nel 2015, quando lascia la città di Khowst, dove viveva con la sua famiglia e frequentava la scuola. Parte da solo, pagando un trafficante per la tratta fino alla Turchia. Il viaggio di Osman inizia da un contesto di violenza civile: “Nel mio villaggio ogni giorno qualcuno veniva ucciso”, racconta, “non vivevamo violenza militare ma non c’era sicurezza”. In macchina hanno attraversato il Pakistan e l’Iran: “Ho attraversato il confine tra Iran e Turchia a piedi, era inverno e la neve era alta. Indossavo delle ciabatte di plastica, si scorgevano i cadaveri di chi non ce l’aveva fatta. Qualche corpo riportava ferite da arma da fuoco. Io piangevo e pensavo: se muoio qui chi seppellirà il mio corpo? Pensavo ai miei compagni di classe, a scuola ero il secondo in tutte le materie e in quel momento mi chiedevo ‘Osman, ora che sei andato via, chi ha preso il tuo posto come secondo più bravo di tutta la scuola?’ Chiamai mio padre per dirgli addio”.
Osman arriva in Turchia a quindici anni ed è da solo. La sua storia racconta quella di tanti minori che vivono nell’ombra delle grandi città turche: vive lo sfruttamento in un’azienda tessile, lavora per una fattoria, per dei ristoranti. Dorme per strada, a volte in spiaggia.
Nel 2016 tenta per la prima volta di entrare in Grecia. “Sapevo di molte persone che ci arrivavano passando per il confine dell’Evros, a nord della Turchia, lungo il confine terrestre. Si fa un pezzo a piedi e poi si attraversa il fiume, ma per un tratto breve. Ho provato a oltrepassare il confine per sette volte. La prima sono partito con cinque ragazzi afghani, la polizia greca ci ha sorpreso mentre camminavamo oltre il confine. Ci hanno rincorso con i cani. Ci hanno picchiato e riportato indietro, io ero stato colpito a un orecchio e mi faceva malissimo, non riuscivo a pensare lucidamente”.
La Grecia è uno snodo centrale nelle rotte migratorie, sia per chi sceglie di fare domanda di asilo lì che per chi progetta di intraprendere la cosiddetta “rotta balcanica”, che attraversa i Balcani in direzione nord Europa. Due sono le strade battute per arrivarci: via terra, lungo il confine dell’Evros, o via mare, cercando di raggiungere le isole greche. Dal 2020, i numeri relativi ai migranti che riescono a superare il confine turco-greco si sono ridotti drasticamente. Se nel 2019 si sono contati 70 mila arrivi, nel 2021 sono circa 9 mila, e nel 2022 11.600.
Osman racconta della presenza massiccia della polizia greca al confine, e della violenza impropria subita. Lui che era un minore straniero non accompagnato, in fuga dall’Afghanistan, arrivato in terra europea viene respinto e percosso. “Un’altra volta la polizia greca ci ha intercettato nelle acque del fiume Evros”, continua, “Ci hanno speronato con la barca fino alla costa, poi puntandoci le pistole ci hanno costretto a camminare indietro fino alla Turchia. Ci hanno tolto il cellulare, i soldi, lo zaino.”
Racconta che per due volte è riuscito a fare ingresso in Grecia, entrambe ad Alessandropoli: la prima si trovava nei pressi del centro, dei poliziotti lo hanno fermato per chiedergli dei documenti; la seconda volta, è riuscito a salire su un bus in direzione Salonicco, racconta che dei passeggeri a bordo hanno chiamato la polizia e lo hanno fatto arrestare. In entrambi i casi, è stato caricato su un autobus e riportato in Turchia, prima che gli venisse data la possibilità di chiedere asilo.
La rotta egeo-mediterranea
Dopo sette tentativi, cinque respingimenti e due deportazioni, nel 2021 sceglie di tentare un’altra strada: “Passare dalla Grecia era impossibile. Avevo sentito parlare di una rotta che attraverso il mare portava direttamente in Italia. Recuperai il numero di telefono di un uomo turco che garantiva la possibilità di arrivare in Europa”. Osman inizia a fare due conti: dai cinque anni di lavoro è riuscito a mettere da parte qualcosa, sua madre vende per lui delle collane preziose e qualche amico gli dà una mano a raggiungere la somma.
Mettersi in contatto con i trafficanti non è complicato. Ci sono gruppi su social media come Facebook o Telegram. Scrivendo un post o un messaggio si possono ottenere i riferimenti di diverse reti, la contrattazione inizia online e qui vengono vendute le indicazioni di viaggio. Il costo della tratta da Smirne alle coste del sud Italia si aggira intorno i 7/8 mila euro. Il pagamento va effettuato una volta arrivati in Europa. Osman nel 2020 lo paga 5 mila e 500 euro, una sera di febbraio riceve il messaggio e parte.
“Il trafficante mi diede una posizione da raggiungere a Istanbul, da lì un camion mi caricò in direzione Smirne”, continua. “Arrivammo in una casa nei dintorni di Smirne, eravamo circa duecento, principalmente afghani, siriani e iraniani. C’erano quattro uomini a controllarci, parlavano turco. Ogni sera chiamavano qualcuno di noi e dicevano che era arrivato il momento di andare. Una notte, dopo circa tre giorni, arrivò il mio turno. Ci portarono in riva al mare, e ci fecero salire su una barca a vela”.
Osman racconta che sulla barca erano un centinaio, di cui diversi bambini: “L’uomo turco ci divise, uomini da un lato, donne e bambini dall’altro. Io fui messo a sedere vicino ai bambini. Con me avevo dei datteri, una bottiglia d’acqua e quattro pacchi di sigarette”.
Per cinque giorni e quattro notti la barca viaggia attraverso l’Egeo, per entrare nel Mediterraneo. Le riserve di cibo e acqua finiscono in fretta e la tensione tra i viaggiatori sale. “C’era chi aveva così tanta sete che beveva l’acqua del mare, e poi vomitava. C’era puzza, eravamo stanchi. Di fianco a me dei bambini chiedevano continuamente “acqua, acqua”, le loro suppliche mi facevano impazzire. C’era molto nervosismo, alcuni hanno iniziato a picchiarsi, un signore anziano recitava il Corano ininterrottamente”.
Poi, finalmente, la terra. “Siamo arrivati in Italia grazie a un’operazione di salvataggio dalla Guardia costiera italiana”. Osman racconta che la loro barca è stata intercettata in acque italiane e accompagnata a riva: “Scoppiai a piangere, non ci potevo credere, finalmente quel terribile viaggio era finito”.
Osman testimonia la pericolosità di un viaggio che molti scelgono di intraprendere. Quando arrivano a terra, molti presentano problemi di disidratazione, scompensi renali. Molti non reggono la traversata: alcuni corpi vengono recuperati a riva, o rimangono dispersi in mare.
La militarizzazione dei confini europei sembra aver accresciuto la richiesta di viaggiare su questa rotta. La pericolosità di fare ingresso in Grecia, il rischio di restare bloccati in qualche confine balcanico, spingono molti migranti a fare affidamento al mare per poter arrivare in Europa. Il diritto di asilo viene allora affidato alla fortuna di non essere intercettati, respinti, arrestati dalle guardie costiere turche e greche – succede di frequente e in modo violento –, viene venduto sottobanco dai trafficanti e poi lasciato in balìa delle correnti del mare.
“In Afghanistan avevo paura di morire e in Turchia il terrore di essere riportato indietro” conclude Osman, “ad un certo punto decisi che morire lì o in mare non avrebbe fatto differenza, almeno avrei provato a salvarmi. Per questo ho scelto di imbarcarmi”.