I portuali del C.A.L.P. mi aspettano al circolo ricreativo dell’Autorità Portuale, sono seduti fuori a un tavolino. Il collettivo è nato nel 2011, di ritorno dalla grande manifestazione di Roma del 15 ottobre dello stesso anno. Dopo quel momento i portuali hanno sentito l’esigenza di formare un collettivo interno al loro sindacato di allora (CGIL), che fosse in grado di dialogare con altre realtà, non solo portuali, ma anche politiche. Per spiegare le loro lotte, soprattutto contro il traffico di armi in porto, è bene fare un passo indietro e spiegare in cosa consiste il loro lavoro.
Chi lavora nel porto principalmente ha a che fare con le merci, “qualsiasi cosa che noi utilizziamo nel nostro quotidiano arriva da qualche parte dov’è stata costruita e il 90% arriva via mare. Adesso arriva nei container, prima arrivava sotto forma di merce sfusa. Quindi il nostro lavoro è quello di caricare e scaricare le navi e permettere a questa merce di viaggiare via terra. Questa è la base del nostro lavoro”.
Il porto è un essere vivente che opera ventiquattr’ore al giorno, trecentosessantacinque giorni l’anno senza mai fermarsi, non esistono in porto i giorni di chiusura e le festività.
“Il nostro lavoro è semplicemente quello di mettere a disposizione la merce in partenza e in arrivo. Non c’è, come nel calcio, l’impraticabilità di campo: quando piove, quando tira vento d’inverno, quando si muore dal caldo, noi lavoriamo sempre. Lavoriamo h.24 in qualsiasi condizione metrologica”.
Il lavoro in porto poi è molto differenziato, tanti di loro fanno anche altre mansioni, “c’è chi è alle merci, c’è chi lavora nel porto turistico ai traghetti, c’è chi fa il piazzalista, chi lavora al check-in, oppure c’è il polivalente che si occupa di tutto quello che sono i piazzali del porto, ovvero cose da spostare, cartelli direzionali da sistemare e la gestione di tutto quello che è lo sbarco o l’imbarco della nave. L’indotto totale del porto è di circa tremila lavoratori”.
Per i portuali in generale, per quelli genovesi in particolare, l’internazionalismo è un fuoco che non si è mai spento: una tradizione che li ha portati a coltivare uno svariato numero di lotte dagli anni Settanta ad oggi. Durante la guerra in Vietnam, ad esempio, prima boicottarono per dieci giorni le navi americane nel periodo dei più intensi bombardamenti, poi organizzarono il viaggio della nave Australe che, carica di viveri e medicinali, partì dal porto di Genova in direzione del porto nordvietnamita di Hai Phong. Successivamente indissero scioperi contro il governo Pinochet e contro il regime dei colonnelli in Grecia. I portuali genovesi sono da sempre stati a favore della pace e contrari ad ogni guerra, come dicono loro “è nel DNA dei lavoratori del porto essere a disposizione di chi è in difficoltà”.
E arriviamo quindi ai giorni nostri, con l’attuale impegno a bloccare il commercio delle armi che passa anche dal porto di Genova: “il problema delle armi, il problema delle guerre in giro per il mondo i portuali l’hanno sempre avuto, non l’abbiamo scoperto noi. Noi come C.A.L.P. ci siamo arrivati senza accorgercene, nel senso che alcuni di noi si rendevano conto che nel terminal dove attraccava la nave della compagnia saudita Bahri c’era un traffico di armi davvero massiccio, ingombrante, problematico anche proprio a vederlo. Abbiamo avuto dei timori ad iniziare quella battaglia lì, ne abbiamo avuti tanti perché andare a toccare certi argomenti e certe questioni all’interno di un terminal che vive anche di quel lavoro lì, portava con sé delle contraddizioni e dei problemi. Poi ha prevalso la voglia di farla, questa battaglia”.
Il primo atto di questa lotta contro le navi della compagnia saudita Bahri è stato nel 2019, “anche un po’ spinti da tanti compagni e compagne e da tante organizzazioni genovesi che già da molto prima di noi avevano scoperto questo problema, lo monitoravano e lo seguivano da tempo.
Una mattina abbiamo deciso di entrare, non eravamo in tanti ma nemmeno in pochi, c’è stato uno sciopero generale della CGIL, che in quel frangente a quel tempo ci ha dato un aiuto fondamentale, ed è stata una battaglia vincente! Da lì abbiamo iniziato a prestare più attenzione a queste vicende e la battaglia è arrivata fino ai giorni nostri”.
La certezza che armi e armamenti trasportati dalla nave raggiungessero i cosiddetti teatri di guerra è arrivata al C.A.L.P. in modo inaspettato e totalmente casuale. Se ne sono accorti perché su tutti i mezzi che scaricano e caricano dalle navi, sono obbligati a mettere adesivi per la tracciabilità. Bene, uno di questi mezzi con ancora attaccato parte di un adesivo con la destinazione porto di Genova – Tripoli, è stato visto in TV durante un servizio sulla guerra in Libia: “ce ne siamo accorti perché noi sui mezzi e sui pickup mettiamo degli adesivi di destinazione (tipo quelli che si mettono sulle macchine imbarcate per la Corsica o la Sardegna, il concetto è quello). In una di queste trasmissioni televisive abbiamo visto una scena di battaglia in Libia in cui si sparavano tra varie fazioni e si vedeva uno di questi pickup della Toyota (Hilux), che sparava come un matto con questo bell’adesivo appiccicato ancora lì davanti con scritto porto di Genova – Tripoli mezzo strappato. Da lì in poi abbiamo capito che molti di quei pickup che movimentiamo sono destinati a un allestimento militare per la guerra”.
Ma il loro vittorioso sciopero del 2019 – a seguito appunto della certezza della destinazione delle armi – non è stato senza conseguenze, perché mettersi contro a una compagnia saudita che commercia in armi non è propriamente una cosa senza conseguenze. Ci sono state delle indagini molto approfondite che, assieme a una repressione sempre più costante, hanno messo in difficoltà il proseguimento della lotta: “nelle indagini nei nostri confronti e negli atti che siamo riusciti a visionare, la questione del contrasto ai traffici di armi era evidente. Sono denunce che immaginiamo essere state fatte da chi cura gli interessi della Bahri, ovvero dalla compagnia, da qualche armatore, da qualche terminalista o da qualche avvocato di parte. Questa indagine in effetti ci ha un po’ paralizzato e messo in difficoltà”. Ma l’evidenza più grande del cambiamento delle circostanze a seguito delle indagini è arrivata sul posto di lavoro e non solo, “riscontriamo sempre più problemi ad avvicinarci a quelle navi perché ogni volta che arrivano in porto i terminal si riempiono di polizia e di guardia di finanza. Prima di questi controlli massicci, riuscivamo quasi tutte le volte ad inventarci qualcosa per bloccarla e per ostacolarla agli ormeggi. Anche adesso ci proviamo, ma sono azioni di diverso tenore. Per noi è una battaglia che deve continuare e la stiamo continuando con l’aiuto di tanti e tante, con l’aiuto dei portuali francesi e di altri portuali europei e con l’aiuto di Weaponwatch, che è un’organizzazione di monitoraggio sul traffico di armi nel Mediterraneo. I risultati ovviamente sono altalenanti”.
A un paio di anni dallo sciopero vincente, ma indeboliti e spinti in un angolo da forze più grandi di loro, percependosi in un cul-de-sac, nasce l’idea di scrivere una lettera aperta a Papa Francesco. “Una lettera che diceva in sostanza che l’altra volta su un volo aereo ti sei espresso a favore dei lavoratori portuali che contrastano il traffico di armi, hai detto delle cose importanti e noi ora siamo in difficoltà anche e soprattutto per quel motivo lì. L’abbiamo buttata lì così, un tentativo per aprire una breccia. Alla lettera hanno risposto immediatamente. Nel frattempo, alcuni di noi sono andati a parlare alla Sapienza giù a Roma e lì erano presenti alcune persone che hanno rapporti importanti con il Vaticano. A queste persone abbiamo regalato una maglietta, abbiamo fatto i nostri discorsi e pensavamo fosse finita lì. Invece dopo una settimana ci hanno invitato in Vaticano in udienza privata con il Papa. Eravamo qua al circolo ricreativo dell’Autorità Portuale e ad un certo punto chiama il nostro responsabile sindacale dicendo che gli stavano arrivando telefonate dai servizi di sicurezza del Vaticano e della Digos romana sostenendo che noi non potevamo muoverci da Genova e tanto meno entrare in Vaticano. La cosa probabilmente poi si è sgonfiata e noi abbiamo avuto questa udienza privata con il Papa, che in quell’occasione ha dimostrato che sulle armi ragiona come noi”.
Tutte queste peripezie non solo hanno esposto politicamente le loro lotte, ma hanno anche provocato una rottura con la CGIL e il conseguente passaggio al ben più conflittuale sindacato di base USB. “Noi avevamo capito dove i sindacati confederali stavano virando e non stava più bene, non ci vedevamo un futuro. Erano e hanno dimostrato ad oggi di essere completamente distaccati da quella che è la realtà dal mondo del lavoro. Noi siamo stati inscritti in CGIL per diversi anni, ma abbiamo sempre avuto un punto di vista diverso perché comunque guardavamo anche ad altre realtà. Ci sono stati alcuni fatti che ci hanno proprio fatto cambiare idea, poi ci sono state diverse questioni interne al porto che ci hanno fatto capire che il rapporto si stava lacerando completamente. Nell’ultimo periodo con CGIL non riuscivamo più a trovarci e la battaglia sul traffico di armi è stato il punto di non ritorno. La ritirata strategica fatta dalla CGIL durante il secondo sciopero del 2020 ci ha lasciati da soli a fare uno sciopero che di conseguenza non ha portato ai risultati della volta prima. Con USB invece abbiamo un rapporto chiaro, in generale crediamo che il sindacato di base riesca oggi ad interpretare al meglio i bisogni della classe operaia in generale”. E questo è quanto è accaduto fino ai giorni nostri.
I porti sono sempre di più punti di svolta e di avanguardia, sia per quando riguarda le lotte sia per quanto riguarda l’utilizzo di nuove tecnologie, come ad esempio l’automazione che sta cambiando il mondo del lavoro a una velocità spaventosa. “Il futuro che ci aspetta è che le gru di carico e scarico vengano collegate in remoto e guidate da un ufficio che non sta più neanche sulla banchina o sulla nave; quindi, per noi il futuro è una cosa inaccettabile, è qualcosa di spaventoso. Stiamo cercando comunque di capire come muoverci perché la tecnologia corre a una velocità eccessiva anche per le nostre menti che comunque sono abituate a lavorare diversamente”.
L’ultima cosa che gli chiedo prima di salutarci, è cosa ne pensano del mare che per loro è sia uno spazio di lavoro che uno spazio di lotta. “Lo vedi Genova com’è fatta, che città è, una città come disse Petrarca regale, addossata ad una collina alpestre. Il rapporto con il mare è per forza di cose molto stretto. Il lavoro nel porto è in rapporto strettissimo con il mare e la città. Genova vive sul mare, vive con il mare tutti i giorni”.