La storia di J. si nasconde qui, a Milano, all’ombra dello stadio San Siro.
Quello stesso stadio qualche mese fa ha accolto lo Sheriff Tiraspol, la squadra di calcio partita dalla Transnistria – un frammento di terra esploso dal crollo dell’URSS ignoto ai più e al diritto internazionale – e ascesa, fra lo stupore perplesso di tutti, al tetto del calcio europeo.
Anche la storia di J. arriva da una scheggia di terra sovietica, che, come la Transnistria, ha un nome suggestivo da universo fantasy, di cui non si trova traccia sulle carte geografiche.
Ma la vita di J. con gli allori e i clamori del calcio ha ben poco a che fare. E’ nata nel Caucaso, nella città di Gali, in Abkhazia, “che è una regione della Georgia”, dice, “come l’Italia ha la Puglia e la Lombardia”. Anche se molti sarebbero pronti a contestare questa precisazione geografica.
L’appartenenza dell’Abkhazia, infatti, da circa trent’anni è al centro di un conflitto territoriale emerso con il crollo dell’Unione Sovietica e mai risolto.
Gli abkhazi erano una delle numerose minoranze della Georgia sovietica ed erano titolari di di una repubblica autonoma, abitata da diversi popoli, di cui gli abkhazi costituivano solo il 20 percento. In aree come quella di Gali, la città di J., infatti, la popolazione era quasi interamente georgiana.
Con la caduta dell’Unione Sovietica, venuto meno il controllo di Mosca, l’Abkhazia aveva avanzato richieste di indipendenza che erano scontrate con l’ostilità della Georgia. In risposta, l’Abkhazia si è autoproclamata indipendente. La dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte dell’Abkhazia, sostenuta da volontari caucasici e dalla Russia, fu la scintilla che trasformò la disputa in una guerra. Era il luglio 1992 e abkhazi e georgiani prendevano le armi gli uni contro gli altri, improvvisamente nemici.
Quando il conflitto armato è iniziato, J. aveva diciassette anni e a un tratto si ritrovava straniera nella sua stessa terra, ora rivendicata da gente che non aveva intenzione di fare spazio ai georgiani, ormai ritenuti corpi estranei.
Nel settembre del 1992, fiutando il pericolo che correvano, la sua famiglia si era trasferita in casa di parenti, a Zugdidi, una città si trova in Georgia appena fuori dal territorio dell’Abkhazia, al di là di un fiume chiamato Enguri.
La vita da sfollati però non era semplice. Non avevano una casa propria, non avevano lavoro e di conseguenza non avevano soldi per vivere. Per non soffrire la fame, la madre di J. era stata costretta a vendere alcuni dei suoi anelli.
A febbraio, quindi, la decisione di attraversare nuovamente il fiume Enguri e tornare a casa propria, a Gali. La permanenza però non durò molto. Una sera, tornando a casa, il padre di J. aveva detto “Vengono”, riferendosi alle milizie abkhaze che avanzavano armate. Le voci delle violenze perpetrate dalle milizie nei territori vicini erano già note e la famiglia di J. insieme a molti altri abitanti dell’area, per evitare il pericolo decise di lasciare la città.
Accadde tutto molto in fretta, perché la guerra non chiede permesso prima di sfondare la porta di casa. J. e la sua famiglia raccolsero le poche cose e uscirono, ancora in ciabatte, nel freddo di febbraio. Alle loro spalle, la casa dei loro vicini di lì a poco sarebbe stata distrutta dal fuoco delle milizie abkhaze.
Al buio tentarono la fuga verso le montagne e si rifugiarono in una delle tante grotte che si aprono nelle alture delle Caucaso. Entrarono nella cavità con una corda, ricorda J., mentre tutto intorno arrivava il suono sinistro di esplosioni non troppo lontane.
Rimasero per tre giorni nella grotta, in cento, senza avere nulla da mangiare con sé, in una zona abitata solo da foreste e da orsi.
Al terzo giorno decisero di provare a raggiungere la Georgia, ma J. e i suoi familiari furono scoperti dagli abkhazi e detenuti. J. ricorda che erano poi riusciti a scappare, incredibilmente, grazie a un conoscente abkhazo di suo padre, che li aveva riconosciuti e li aveva aiutati ad arrivare in un luogo sicuro. Questo è accaduto – spiega J. – “perché georgiani e abkhazi hanno sempre vissuto insieme. Gli abkhazi erano sposati con georgiane, i georgiani sposati con abkhaze. Vivevano insieme. E anche i russi”.
Così, contando sulla forza di un legame umano evidentemente più forte dell’odio costruito dalla politica, J. arrivò con la sua famiglia a Jvari, in Georgia, dove trovò finalmente riparo dal pericolo delle armi.
La guerra sarebbe andata avanti ancora per qualche mese, lasciando una regione disseminata di rovine e di vittime. Sono diverse migliaia le persone cadute nel conflitto, mentre oltre duecentomila georgiani furono costretti a lasciare le proprie case e a riparare in Georgia, dove molti si sarebbero ritrovati su un altro percorso accidentato, quello del profugo, del migrante, sospeso fra una terra d’origine che non esiste più e un luogo d’arrivo che non può o non vuole accoglierlo totalmente. Alcuni dei molti espulsi dall’Abkhazia furono collocati in alloggi di fortuna, in edifici spesso fatiscenti, e costretti a condizioni di mera sopravvivenza che per i meno fortunati si sono protratte per oltre vent’anni.
Si ritrovò nuovamente in casa di parenti, dove i suoi spazi si riducevano a una stanza condivisa con altre quattro persone. J. suonava il pianoforte da dieci anni e avrebbe voluto proseguire gli studi da pianista, ma nella situazione in cui viveva era impensabile. Per diventare pianista professionista avrebbe dovuto suonare diverse ore al giorno, ma non aveva con sé il suo pianoforte, rimasto a Gali, né la possibilità di comprarne uno nuovo per esercitarsi in quello spazio ristretto e sovraffollato. “Senza il pianoforte, senza cantare, la mia vita è diventata triste”, dice.
Decise quindi di spostarsi a Tbilisi, per studiare Storia e Archeologia, mentre la sua famiglia tornava a Gali, che intanto era diventata una terra straniera per i georgiani, ospiti indesiderati in un territorio segnato da confini non riconosciuti, ma in compenso ben rimarcati da una frontiera chiusa e militarizzata, accessibile solo attraverso check-point, che lo separavano dalla Georgia.
Le autorità abkhaze avevano concesso ai georgiani il permesso di tornare, ma non il passaporto, che, con un cognome georgiano era pressoché impossibile ottenere. Questo li escludeva non solo dalla vita politica, ma anche dall’assistenza medica e da qualunque forma di protezione sociale, per le quali erano obbligati a recarsi in Georgia, attraversando la frontiera militarizzata con un permesso rilasciato dalle autorità abkhaze.
A Tbilisi J. si ritrovò sola, separata dalla sua famiglia dal solco lasciato dal conflitto.
Qui iniziò a lavorare in banca e incontrò l’uomo che sarebbe poi diventato il padre di sua figlia. Quando la bambina era ancora molto piccola, però, il suo compagno lasciò entrambe. Si ritrovò di nuovo sola, con una figlia di cui occuparsi.
Pensando al futuro di sua figlia, nel 2013 J. decise di emigrare. Con l’aiuto di una sua amica riuscì ad arrivare in Italia, ad Altamura, in provincia di Bari, dove trovò un impiego come lavoratrice domestica. Qui si è dovuta confrontare con tutte le difficoltà del lavoro domestico: ritmi di lavoro serrati, precarietà economica, contratti sommersi, fattore, quest’ultimo che condanna all’irregolarità e all’invisibilità i lavoratori stranieri, per i quali il contratto di lavoro è un requisito indispensabile per avere un permesso di soggiorno.
A tutto questo si sommava la difficoltà quotidiana di occuparsi della bambina, che rimaneva da sola nelle ore di lavoro. Racconta che, durante il giorno, si teneva in collegamento costante con sua figlia via skype. Poi, qualche anno dopo, si accorse che ad Altamura non aveva molte prospettive di garantire un futuro a se stessa e a sua figlia. Durante un colloquio, un’assistente sociale le aveva suggerito di tornare in Georgia e di lasciare in Italia sua figlia, che, come minore avrebbe avuto maggiori possibilità di inserimento.
A quella proposta J. non aveva dormito per una settimana, dice, poi, sempre su consiglio della stessa amica, decise di spostarsi a Milano.
E’ arrivata a San Siro. Anche qui J. si è trovata a dover fare i conti con un nuove frontiere interne, non militarizzate, ma altrettanto visibili. Frontiera è la linea che separa nettamente il quartiere in due: da un lato l’area ricca e benestante e dall’altra quella più difficile, dove si vedono molti edifici in stato di abbandono e dove si raccolgono persone con storie diverse – anziani soli, persone con fragilità psicologica, migranti di lungo corso messi in scacco dalla crisi o migranti in transito – ma tutte avvicinate da una comune condizione di vulnerabilità economica e sociale. Frontiere sono quelle che inevitabilmente si creano fra gli abitanti della parte meno fortunata del quartiere, che condividono quotidianamente lo stesso spazio, caratterizzato da scarse risorse e precarietà.
Alloggia, come molti altri migranti, senza un contratto d’affitto in una delle tante abitazioni occupate del quartiere. La sua condizione non le piace, anzi, quasi se ne vergogna, ma non può permettersi altro, visto che, come ad Altamura, neanche a Milano è riuscita a ottenere un contratto di lavoro regolare. Questo però non sembra smuovere a compassione i suoi vicini, italiani, che guardano a J. e a sua figlia con ostilità e non perdono occasione di rimarcare la loro condizione di irregolarità.
Ma nonostante questo, J. è entusiasta della sua vita a Milano. Fra le tante difficoltà incontrate, nel quartiere ha trovato sempre grande solidarietà. Nella lunga conversazione, il dispiacere per l’astio mostrato dai vicini è solo un breve accenno, una nube passeggera, che si disperde in fretta fra le infinite manifestazioni di gratitudine verso le sue insegnanti di italiano, verso gli operatori socio-sanitari che l’hanno aiutata a curarsi in diverse occasioni, verso le associazioni del terzo settore che le hanno fornito aiuti alimentari tutte le volte che ne aveva bisogno.
In Georgia, dice, non troverebbe nulla di tutto questo. Non a Tbilisi, meno che mai a Gali, dove la situazione sembra non essere cambiata di molto da quel 1992 che ha scompaginato l’esistenza di centinaia di migliaia di persone. L’Abkhazia, dopo quasi trent’anni, permane nella sua condizione di stato non riconosciuto, isolato e dipendente dal supporto della Russia.
Allo stesso modo, rimane quasi del tutto immutata la difficile situazione dei georgiani di Gali, ancora guardati dalle autorità abkhaze come ospiti non desiderati e fortemente marginalizzati.
Racconta di essere molto preoccupata per i suoi familiari rimasti a Gali. Suo padre non c’è più, dice. E’ morto anni fa a sessantacinque anni per le conseguenze di un colpo alla testa ricevuto da un giovane abkhazo. A occuparsi della madre, anziana e con una salute precaria, è rimasto suo fratello che ha trentatré anni e non riesce a trovare un impiego stabile in una realtà così fragile e complessa, dove le opportunità e le risorse sono molto ridotte. Quando possono, cercano di arrotondare vendendo nocciole e mandarini, ma l’unico reddito per la famiglia, spiega J., è di la pensione di sua madre. 50 euro in tutto, erogati dalla Georgia perché a trent’anni di distanza i georgiani di Gali fanno ancora molta fatica a ottenere il passaporto abkhazo e per accedere alla pensione o all’assistenza medica sono ancora obbligati a recarsi oltre il confine a Zugdidi, in Georgia. Previo permesso da esibire al check-point.
Di quella che usavano chiamare casa, del luogo dove J. suonava il pianoforte sperando di diventare pianista, a Gali sono rimaste solo le mura. Intorno, una terra straniera.
Per J. la “casa” ora è qui, fra quelle quattro mura a San Siro, dove conduce un’esistenza precaria, ma dove almeno riesce a immaginarsi un futuro, non per sé, dice, ma per sua figlia, che studia canto lirico e che forse riuscirà a realizzare le proprie aspirazioni, diversamente da sua madre, che ha visto i suoi progetti andare in pezzi sotto le macerie del conflitto.
Guarda avanti, J., per sua figlia e perché forse avrebbe poco senso guardare indietro al suo passato e alla casa con il pianoforte, nascosti dal confine invalicabile di un mondo che non esiste più da trent’anni.
Gali, Abkhazia, Georgia