Il Negev è uno stato d’animo, non è solo un luogo fisico. Un territorio liquido, che finisce per ricoprire più della metà di quella terra stretta, divisa, Israele e Palestina, dove la prima occupa quella che dovrebbe essere la seconda, ma ci vive solo il dieci per cento della popolazione.
Il Negev, Naqb in arabo, è la ‘terra del sud’, è a tratti inospitale, è polvere e löss, un’arenaria che riempie l’aria e toglie il respiro. Ma per i beduini, il Negev, è il mondo intero.
La grammatica della questione israelo – palestinese, come tutte le semplificazioni politiche e giornalistiche, non cede facilmente al pedaggio della complessità, eppure l’identità nomade è una delle tante Palestine possibili, abitate da secoli da comunità che cercano di trovare uno spazio, a volte con la forza, altre con la resistenza, sempre difendendo la memoria.
Quella beduina, con circa 250mila persone, è l’identità centrale del Negev e quella trasversale della terra stretta, differente dall’universo arabo e da quello ebraico. E’, per certi versi, il terzo incomodo.
Loro, da sempre, in quella polvere, vedono cose invisibili agli altri, vedono la vita, vedono i sentieri dei loro greggi.
Per decenni lo stato d’Israele ha combattuto il loro stile di vita, spingendo in ogni modo possibile per il loro inurbamento, in risposta a quella visione di controllo che nasce con l’idea di stato ebraico, che sia demografico, abitativo, o semplicemente di controllo della terra.
Ciclicamente le comunità beduine sono l’obiettivo di operazioni del governo israeliano, mai affrontate con il confronto, con la politica, con il dialogo, ma sempre con la polizia, con l’esercito, con la grammatica della forza.
Il 10 gennaio scorso, in quella che possiamo considerare come l’ultima puntata di questo conflitto nel conflitto, nella zona del villaggio beduino di Sawa, ci sono stati oltre cento arresti. Un’iniziativa del Fondo Nazionale Ebraico, che si occupa della proprietà delle terre, prevede di piantare alberi sui terreni usati dalla comunità beduina per la pastorizia.
I beduini si oppongono, protestano, contestano il piano perché introduce piante che non hanno un legame con quella terra, lanciano sassi contro i bulldozer che hanno iniziato a ‘bonificare’ la zona, da cose e persone, come fanno le autorità in Israele, facendo largo uso di lacrimogeni e granate assordanti contro la comunità che protesta.
Il più imbarazzato di tutti, nella vicenda, è di sicuro il partito della Lista Araba Unita, Ra’am in arabo, che ha ottenuto il 3,79 % dei voti alle ultime – di ennesime – elezioni in Israele e ha accettato a giugno di entrare per la prima volta nella storia d’Israele nella coalizione di governo presieduta da Naftali Bennett, che ha posto fine al dominio del satrapo Benyamin Netanhyau, ora sotto processo.
Sembrava la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova era, ma i metodi restano gli stessi, e gli arabi – israeliani (cittadini palestinesi che dopo il 1948 restarono in Israele prendendone la cittadinanza) sono in forte imbarazzo ora che governano con chi sgombera quegli stessi beduini ai quali, in campagna elettorale, lo stesso partito Ra’am aveva promesso una normalizzazione del loro status.
Non ha alcun ministero, ma conta su quattro seggi alla Knesset, il parlamento israeliano, che ha un equilibrio così fragile da dare un minimo di agibilità politica alla lista araba, che aveva abbandonato la coalizione di partiti arabi – israeliani e che ora teme la pressione degli ex sodali.
Nel mezzo restano i beduini, attaccati e sgomberati, che difendono prima di tutto uno stile di vita millenario, un’identità nomade e non sedentaria, e poi anche la sua terra. E hanno iniziato una campagna, anche sui social network, per chiedere la solidarietà internazionale
Marwan Abu Freih è un avvocato che rappresenta alcuni degli arrestati; ha raccontato ai media la mancata risoluzione delle controversie sulla terra sta avendo un impatto terribile sulla comunità beduina. “Il conflitto è iniziato con la terra ma oggi è diventato una lotta per la nostra stessa vita. Molte persone, molti bambini, molte donne in villaggi non riconosciuti sono senza alcuna infrastruttura, perché non accettano di piegarsi”, ha aggiunto Abu Freih, che lavora con Adalah, un’organizzazione israeliana che si batte per i diritti degli arabi.
Per le istituzioni israeliane le comunità beduine praticamente non esistono, anche se vivono da sempre sul quelle terre. Non riconoscono i diritti che queste reclamano su appezzamenti che gestiscono fin dai tempi dell’Impero Ottomano e non riconoscono i villaggi, che per loro sono “non riconosciuti” perché le precedenti amministrazioni si sono rifiutate di conferire uno status legale attraverso la legislazione urbanistica.
Sawa, come insediamento, è stato legalizzato nel 2010, anche se il trasferimento non ha incorporato il terreno circostante e il villaggio è ancora privo di servizi. Questo quindi, per la legge israeliana, apre al diritto dello stato di espropriare ‘terre di nessuno’, per un progetto, ma non ha mai sentito come un dovere quello di fornire servizi essenziali anche alle comunità riconosciute.
Da sempre si battono per i loro diritti e le donne della comunità sono sempre in prima linea.
Da un lato per un motivo pratico, perché le operazioni di demolizione e sgombero avvengono generalmente durante le ore del giorno, quando gli uomini di Sawa sono al lavoro e i bambini sono a scuola, dall’altro perché sono le vere ‘guardiane della terra’, come si definiscono.
Un ruolo che, dagli anni Novanta a oggi, è diventato sempre più politico, sempre più attivo, segnato da una nuova generazioni di giovani donne che, sostenute da madri e nonne, stanno occupando uno spazio di narrazione che tiene assieme tradizione e futuro per una di quelle identità che il conflitto cerca di cancellare, come le loro case e i loro pascoli, portando sempre più lontano quella – poca – acqua che serve per vivere.
Acqua che viene sistematicamente dirottata verso gli insediamenti israeliani costruiti sulle rovine dei villaggi spopolati dei beduini. A Sawa, per giorni interni, manca l’acqua, ma mai la voglia di lottare per non essere cancellati dalla terra e dalla storia.