Il dibattito sulla dimensione politica delle emozioni e dei sentimenti vede da sempre la rabbia come protagonista del discorso. E non potrebbe essere altrimenti, visto e considerato il grande quantitativo di energia che la rabbia è in grado di rilasciare. Per questo motivo viene da alcuni considerata come motore di cambiamento sociale, e non mancano gli inviti a interpretarla come strumento di ribellione volto al riscatto e all’emancipazione. Tuttavia, vista la delicatezza del tema, e vista la pericolosità che possono assumere alcuni comportamenti rabbiosi tanto per l’incolumità di chi si arrabbia quanto per quella di chi viene bersagliato dall’arrabbiato, è opportuno domandarsi se la rabbia possieda davvero quelle proprietà salvifiche, protettrici e liberatorie decantate dai suoi fautori. O se invece, ammesso che faciliti la fuoriuscita dalla gabbia dell’oppressione, lo faccia soltanto al prezzo di rinchiudere l’arrabbiato dentro un’altra gabbia, che avvelena la mente e inquina i rapporti sociali.
La filosofa Martha Nussbaum, in apertura del saggio Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, parla proprio di questo dilemma, evidenziando come «la rabbia ha una duplice reputazione. Da una parte, è ritenuta importante per la vita morale, essenziale ai rapporti umani tanto in termini etici che politici. […] Dall’altra parte, l’idea che la rabbia costituisca una minaccia per l’affermarsi di interazioni umane soddisfacenti attraversa tutta la tradizione filosofica occidentale» e «la stessa idea di distruttività della rabbia è prominente nelle tradizioni non occidentali. […] Entrambe le posizioni possono essere giuste: la rabbia potrebbe essere uno strumento utile quanto pericoloso nella vita morale, incline all’eccesso e all’errore ma anche fonte di contributi preziosi. […] D’altro canto, è anche possibile che una di queste posizioni sia fondata molto più dell’altra».
La filosofa assume una postura chiara e inequivocabile soprattutto quando parla di giustizia rivoluzionaria. Mentre «in questo ambito si è spesso ritenuto che la rabbia sia nobile e necessaria, aiutando gli oppressi ad affermare sé stessi e a ottenere giustizia», Nussbaum sostiene, rifacendosi a scritti teoretici di Mohandas K. Gandhi e Martin Luther King, due dei massimi esponenti della filosofia politica della nonviolenza, «che la rabbia non solo non sia necessaria al perseguimento della giustizia, ma costituisca addirittura un grosso ostacolo alla generosità e all’empatia che aiutano a costruire un futuro di giustizia». Infatti, aggiunge, «è cruciale che il leader del movimento rivoluzionario, e la maggioranza dei suoi seguaci, siano tipi particolari di persone, in parte stoici e in parte creature capaci d’amore», e cita come esempio il pensiero e la vita di Nelson Mandela, altra personalità di spicco del pantheon nonviolento.
Ora, secondo una certa prospettiva, esisterebbe un rapporto di equivalenza fra l’invito all’arrabbiarsi e le istanze rivoluzionarie da un lato, e l’invito a fare a meno della rabbia e le istanze conservatrici dall’altro. Chi abbraccia tale visione ritiene che gli indirizzi filosofico-politici che invitano a emanciparsi dalla rabbia come strumento di lotta politica siano in realtà espressione di una più vasta ideologia dominante che mira al mantenimento dello status quo, la quale si serve di queste appendici culturali per deviare e incanalare le energie rivoluzionarie, smorzandole e portandole a morire in vicoli ciechi. Tuttavia, se così fosse, non si spiegherebbe come mai tali indirizzi filosofico-politici siano stati sviluppati e applicati direttamente – e con successo – nella lotta politica proprio da soggetti storicamente oppressi e dominati. Né si spiegherebbe come mai la repressione perpetrata dai dominanti abbia colpito questi soggetti – il cui agire sarebbe stato utile a disinnescare le spinte rivoluzionarie – tanto quanto i promotori della rabbia quale motore del cambiamento sociale.
A ben vedere, dunque, la suddetta equivalenza non sembra reggere alla prova della storia. E anzi, provocatoriamente, si potrebbe perfino invertirla, sostenendo che chi invita alla rabbia promuoverebbe in realtà – inconsapevolmente – una visione del mondo conservatrice, fatta cioè di dinamiche politiche stereotipate che conservano l’esistente, cioè che seguono un pattern ben consolidato e incastonato nel framework sociale dominante, perpetuandolo; mentre la vera rivoluzione risiederebbe nel rinunciare alla rabbia, stracciando così un copione sociale ormai noto e fatto di comportamenti prevedibili, per proporne uno inedito e in aperto contrasto con le prescrizioni normative dello status quo su come condurre un conflitto – è bene sottolineare nuovamente che queste prescrizioni riguardano un codice culturale e comportamentale per lo più inconscio e appreso fin dalla nascita tramite il processo di socializzazione, codice che guida indistintamente tanto l’agire dei dominati quanto quello dei dominanti.
Ad ogni modo, prima ancora di discutere da un punto di vista etico-morale se la rabbia sia funzionale o meno alla lotta politica, occorre aver chiaro cosa accade, da un punto di vista psicologico, a quelle persone che decidono di esprimere attivamente la propria rabbia. Albert Ellis – psicologo e fondatore della Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (teoria psicoterapeutica di impostazione cognitivo-comportamentale) – nel volume Che rabbia! Come controllarla prima che lei controlli te scritto assieme al collega Raymond Chip Tafrate, sottolinea come la più drammatica delle conseguenze dell’arrabbiarsi sia l’aumento esponenziale della rabbia stessa: esprimere la propria rabbia non solo non è catartico, ma tende a rinforzarla e consolidarla. «Numerosi esperimenti psicologici hanno esaminato questo tema negli ultimi quarant’anni: tutti sono giunti alla conclusione che le espressioni di rabbia sia verbali sia fisiche portano più rabbia e violenza, e non meno». Ellis, inoltre, dopo aver elencato i rischi per la salute causati dalla rabbia – primo fra tutti il danneggiamento del sistema cardiovascolare con conseguente insorgenza di cardiopatie – aggiunge che difficilmente, a livello sociale, arrabbiandosi si ottiene ciò che si desidera. Più frequentemente, si assiste invece a un depauperamento relazionale e affettivo, che può condurre fino all’emarginazione dell’arrabbiato dalla vita sociale.
A questo punto, consapevoli che esistono tradizioni filosofico-politiche che ritengono poco utile la rabbia ai fini del cambiamento sociale, e consapevoli dei pericoli psicosociali e di salute che comporta l’arrabbiarsi, tre sono le obiezioni che possono essere mosse e a cui occorre dare una risposta. La prima è quella secondo cui, in realtà, non avremmo potere sulla nostra rabbia, poiché questa nascerebbe spontaneamente e in maniera automatica in certe situazioni. La seconda dice che senza la rabbia a guidarci come una bussola morale non saremmo in grado di discernere il giusto dall’ingiusto, né ci attiveremmo mai per cambiare le cose. La terza sostiene che ogni gruppo sociale, in special modo le minoranze oppresse, autodeterminandosi, deve poter ricorrere anche alla rabbia come strumento di lotta, se lo ritiene necessario.
Alla prima obiezione si può rispondere seguendo sempre il pensiero di Ellis, contenuto nel suo principale testo di riferimento, L’autoterapia razionale emotiva. Come pensare in modo psicologicamente efficace. Il cuore della sua tesi è che non sarebbero gli eventi esterni (chiamati anche avversità, o esperienze attivanti) a determinare la nostra rabbia (conseguenza emotiva, o comportamentale), ma bensì le convinzioni che abbiamo sugli eventi stessi. Certo, le esperienze attivanti possono fungere da stimolo, ma queste non sarebbero mai la causa della nostra rabbia, che sarebbe invece in gran parte conseguenza della nostra visione della realtà, del modo in cui interpretiamo e valutiamo ciò che accade. Ellis mutua questo assunto dall’insegnamento di alcuni grandi maestri orientali come i filosofi Confucio e Laozi, ma è soprattutto dallo stoicismo che trae ispirazione, leggendo gli scritti dei filosofi Marco Aurelio, Seneca, e in particolare Epitteto, di cui assume, come colonna portante della sua teoria, la celebre massima contenuta nel Manuale, o Enchiridion, secondo cui «ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose».
Tale prospettiva è condivisa anche da un altro psicologo, Marshall B. Rosenberg, ideatore della Comunicazione Nonviolenta e allievo di Carl Rogers, uno dei massimi esponenti della psicologia umanistica e fondatore della Terapia Centrata sul Cliente. Nel volume Le sorprendenti funzioni della rabbia. Come gestirla e scoprirne il dono, compendio specifico del più generale manuale Le parole sono finestre [oppure muri]. Introduzione alla Comunicazione Nonviolenta, Rosenberg ci invita a «diventare consapevoli che la causa della nostra rabbia è la particolare valutazione che diamo di ciò che è stato fatto. Stiamo cioè valutando quello che ci accade in modo “scollegato dalla vita”, nel senso che non lo colleghiamo direttamente ai nostri bisogni o a quelli degli altri. Pensiamo invece che le altre persone, per il comportamento tenuto, siano “cattive” o siano “in torto”».
Queste affermazioni possono lasciare confusi e disorientati, e possono essere difficili da digerire, abituati come siamo a non assumerci la responsabilità dei nostri sentimenti e a ritenere che siano gli altri, coi loro comportamenti, a causare la nostra collera. In realtà «la causa dei nostri sentimenti non è mai quello che l’altra persona fa, ma è il modo in cui lo interpretiamo» ovvero «è la particolare valutazione che facciamo sul comportamento altrui – costituita di giudizi moralistici – che causa la nostra rabbia» in noi. A tal proposito, l’esempio più incisivo proposto da Rosenberg è probabilmente la sua esperienza lavorativa in Rwanda con persone i cui familiari erano stati uccisi durante il genocidio del 1994: «alcuni erano talmente arrabbiati che non potevano fare altro che aspettare una buona occasione per vendicarsi. Altri, che pure avevano avuto dei familiari uccisi – e forse anche in numero maggiore – non erano arrabbiati. Provavano dei sentimenti forti, ma non la rabbia. Provavano dei sentimenti che facevano sì che volessero impedire che queste tragedie si verificassero di nuovo, ma non volevano punire nessuno».
Sarebbe confutata così anche la seconda obiezione: per riconoscere le ingiustizie e opporvisi, per combattere i soprusi, l’emozione specifica della rabbia sembra essere superflua. Ciò che è indispensabile e sufficiente è l’uso della ragione, attraverso un ancoraggio cognitivo a quelli che riteniamo essere i valori fondamentali e i principi inviolabili. E sempre la ragione è di per sé sufficiente, una volta valutato cosa non ci sta bene, per attivarci e cambiare le cose, se questa è la nostra reale volontà. Se nell’esercizio del pensiero, formulando i nostri giudizi, ci scopriamo invece arrabbiati, questo indicherebbe che siamo dominati da convinzioni irrazionali, direbbe Ellis. Starà a noi contestare tali credenze, mettendole in discussione fino a individuare nuove convinzioni razionali. Queste ci condurranno a sentimenti diversi dalla rabbia, ma comunque forti, e considerati come appropriati in quanto utili ad affrontare eventi indesiderabili e a lottare per un futuro migliore.
Non sarebbe vero, dunque, che la rabbia sorge in maniera spontanea e automatica. In un certo qual modo, arrabbiarsi sembra essere una scelta su cui possiamo avere un certo controllo: diventando padroni dei nostri pensieri, diventiamo padroni delle nostre emozioni. Se non lo facciamo, il rischio è che la rabbia cronicizzi diventando un’abitudine, portandoci a compiere numerosi errori e azioni strategicamente inefficaci ai fini della lotta politica o del cambiamento sociale che intendiamo perseguire. Del resto, grazie alla divulgazione da parte dello psicologo Daniel Goleman del concetto di intelligenza emotiva, sono ormai note anche al grande pubblico le conseguenze del cosiddetto sequestro emozionale sulla lucidità e l’equilibrio di chi ne cade vittima.
Infine, la terza e ultima obiezione non può che essere accolta. Ma a ben vedere, le riflessioni proposte finora non entrerebbero in alcun modo in conflitto con essa. Ogni gruppo sociale ha il pieno diritto, autodeterminandosi, di ricorrere anche alla rabbia come strumento di lotta, se lo ritiene necessario. È innegabile che la rabbia abbia una sua efficacia nei processi rivoluzionari. Tuttavia, non è detto che sia anche efficiente. Appellarsi alla rabbia ha un prezzo, ed è quindi importante essere a conoscenza di cosa dice la letteratura scientifica circa l’uso e abuso di questa emozione. Così come è importante valutare le alternative a disposizione, le quali afferiscono a culture politiche e tradizioni di pensiero lungamente consolidate nel tempo.
Oltretutto, in alcuni casi, tali alternative sono state sviluppate proprio da alcuni gruppi oppressi. Basti pensare come nel composito e variegato movimento per i diritti civili degli afroamericani, a fianco del già citato campione della nonviolenza – il pastore battista Martin Luther King – la meno nota figura di James Lawson, pastore metodista, giocò un ruolo cruciale nell’organizzare il gruppo di attivisti più disciplinato, influente e meglio formato a non reagire rabbiosamente alle provocazioni e alle violenze degli oppressori. Attraverso un vero e proprio addestramento psicofisico, fatto di role play condotti con l’aiuto di alleati bianchi per rendere più realistica la simulazione, questi attivisti impararono a rimanere impassibili davanti ad offese fisiche e verbali senza cedere alla rabbia – possibile anticamera di esplosioni violente – temprando così la loro forza di volontà.
In conclusione, se lo si vuole, la lotta politica sembrerebbe poter fare a meno della rabbia, ma a patto che ciò non si traduca in passività e arrendevolezza da un lato, né dall’altro lato in presunzione di poter lasciare alla spontaneità e al caso le proprie reazioni in nome dell’autenticità: rinunciare alla rabbia richiede un grande lavoro su sé stessi, richiede impegno, richiede determinazione. Arrabbiarsi, in fin dei conti, è incredibilmente facile, anche se spesso non siamo consapevoli dell’emozione che stiamo provando, o non la mostriamo pubblicamente. La vera sfida, la vera difficoltà, sta invece nel non arrabbiarsi anche quando apparentemente si avrebbe tutto il diritto di essere arrabbiati.
Questo non significa rinunciare automaticamente e categoricamente all’uso della violenza, opzione che anche Gandhi considerava possibile, stando a un suo articolo apparso sul settimanale Young India il 4 novembre 1926 – sebbene il Mahatma specifichi che tale uso è ammesso «soltanto quando è inevitabile, dopo una completa e matura riflessione e dopo aver esaurito tutti i mezzi per evitarlo». Significa invece fare un uso consapevole e razionale di tale violenza, scongiurando la possibilità di diventare ostaggio della rabbia, ovvero senza rischiare che l’uso della violenza sfugga di mano, con gravi conseguenze. Tutto ciò, ovviamente, non significa nemmeno reprimere la rabbia una volta che si è manifestata. Piuttosto, significa prevenirne direttamente l’insorgenza – il sapere della tradizione buddhista su come vivere nel presente può essere in questo molto utile, si veda a tal proposito Il miracolo della presenza mentale. Un manuale di meditazione del monaco Thich Nhat Hanh. O al limite, una volta che la rabbia si sia manifestata, significa trasformarla, permettendole di fiorire pienamente e di rivelare quali bisogni vengono frustrati dalla situazione ingiusta, così da soddisfarli con lucidità, lungimiranza e assertività.