Uno schermo nero, una voce maschile: there is no shortage of ugliness in the world. «Non v’è carenza di orrore nel mondo. Se l’uomo chiudesse gli occhi su di esso, ve ne sarebbe financo di più». But man is a problem solver. «L’uomo, tuttavia, è un risolutore di problemi. Su questo schermo apparirà un’immagine di bruttezza, una visione di dolore senza sollievo che nessun essere umano dovrebbe ignorare. Spazzar via quest’orrore e alleviare le sue vittime è lo scopo di questo film e la speranza dei suoi produttori».
È l’esordio di Khaneh siah ast, La casa è nera. A dirigerlo è Forugh Farrokhzad, voce senza tempo della lirica persiana; verso audace, fissato nello stigma di poetessa del peccato, che negli anni della Rivoluzione sarà dato alle fiamme, bruciato nelle piazze e destinato al compianto. Sola contro le autorità, i benpensanti, la censura, il conservatorismo religioso – che spesso sfociò in arretratezza –, Farrokhzad convoglia nel linguaggio cinematografico la critica e insieme la coraggiosa speranza di rinnovamento contro l’ingiustizia. Nonostante la premessa, tuttavia, l’esito del documentario è destabilizzante.
Realizzato nell’autunno del ’62, nel pieno repressivo del regime di Mohammad Reza Pahlavi, vi è descritta la vita quotidiana di una comunità di lebbrosi rinchiusi in una casa di cura a Tabriz, del Nord del Paese. Nel contrasto cromatico che affianca a nature morte e donne velate l’abbaglio accecante dei muri intonacati nei meriggi assolati, l’innaturalità del bianco e nero quasi non si avverte: l’ambientazione pare inondata da una tempesta di sabbia, al punto che sarebbe difficile immaginare colori diversi da quell’atroce e insensata scala di grigi.
È di una donna riflessa in uno specchio la prima delle immagini che scuotono l’osservatore, seppur ancora indirettamente: è in parte velata, e la lebbra ne ha divorato solo una parte del viso – mentre con l’altra si scruta, forse dubbiosa che l’antica bellezza sia andata. Altre donne, nello svolgersi del film, si specchieranno: chi truccandosi, chi pettinando la lunga chioma nera increspata. Senza vanità alcuna, ma abbandonate alla loro sembianza di vecchie, in quella femminilità negata eppure onnipresente che fu sfondo perenne della poesia di Farrokhzad. Si contorce, l’occhio esordiente risparmiato dal morbo, sulla carne confusa dove un tempo dovevano apparire l’altro e il naso, ora inesistenti: nel suo moto convulso si snoda un vago stupore misto a rassegnata tristezza.
È la stessa combinazione di sentimenti che pervade le altre esistenze filmate dalla cinepresa, dall’arte rese astratte: bambini dagli sguardi innaturalmente invecchiati, come sempre si trova in chi cresce di fianco al terrore; piante avvizzite affianco a donne velate sui davanzali, e senza che le une si distinguano dalle altre; ancora, uomini raccolti in preghiera – un cieco ringrazia per i piedi con cui camminare, uno zoppo per gli occhi per guardare – e uniti in essa quasi fosse la sola via di liberazione dal morbo. Ma è scritto nei versi e nei salmi recitati dall’incorporea voce fuoricampo che «come colombe invochiamo giustizia, e non ve n’è. Attendiamo la luce e regna l’oscurità». «La stagione del raccolto è passata, finisce l’estate, e noi non abbiamo trovato liberazione». Non c’è che fatalismo, amarezza e cupa rassegnazione.
«Chi è che in questo inferno ti invoca, o Dio?» – una voce femminile si eleva: «chi c’è in questo inferno?». I giorni della settimana si susseguono mentre un uomo zoppica lungo il muro della casa: da questa scansione ossessiva, il senso del tempo risulta dilaniato ed esteso. Le lancette delle esistenze individuali dei malati, dei loro tormenti, si fondono a quelle della storia politica e sociale dell’Iran contemporaneo, schiacciato, dopo la breve e illusoria parentesi di una svolta liberale, dall’astio della repressione che seguì il tentato golpe contro Mossadeq. Ma la denuncia al regime, che si sarebbe scagliato contro l’opera giudicandola immorale, nella voce lirica della poetessa-regista resta implicita: la macrostoria scorre indisturbata dietro questi scorci di vita battuta, mai levata. Il grido di dolore che si erge nel silenzio, tra il cigolio di carretti e risa indistinte elevate da volti seriosi, proviene dalle macerie di una condizione universalmente data – quella della miseria e della malattia – che è tale in ogni angolo del mondo e della storia.
Questa è la descrizione di una società chiusa e rigida, l’immagine del vivere umano, da emarginati, come scarti. Anche le cosiddette persone sane in una società apparentemente sana al di fuori del lebbrosario possono soffrire degli stessi sintomi, nascosti nelle profondità del loro animo.
(Forugh Farrokhzad, da un’intervista di Faraj Saba, febbraio 1964)
La lebbra è dunque metafora della solitudine umana e dell’esclusione degli ultimi, della disuguaglianza sociale, dell’ingiustizia. Non è incurabile né ereditaria, e non lo era neppure nell’Iran degli anni Sessanta: anche se l’abbandono a cui queste esistenze furono destinate sembra negarlo. Fu l’ignoranza la vera responsabile del degrado in cui sopravvisse – o tentò di farlo – la comunità del lebbrosario di Tabriz. «La lebbra è cronica e contagiosa. La lebbra non è ereditaria. La lebbra può essere in nessun luogo e in ogni luogo». Con andamento incalzante una voce maschile descrive clinicamente la malattia. «Nasce con la povertà. Si mangia i tessuti. Divora il setto nasale. Accieca. Toglie sensibilità al tatto. Apre la strada ad altre malattie. Ma non è incurabile, se si previene il contagio e lo spargersi sulle parti sane del corpo». Visioni di cura sulle criticità dei corpi resistenti alla decomposizione si susseguono in una sequenza di immagini che lascia comunque atterriti, inquietati. Nella fisioterapia, l’accenno di passetti che paiono un ballo. Dunque non c’è solo miseria e bruttezza: una via d’uscita esiste. Ma è un percorso che, pare, per liberarsi dall’oscurità necessita di penetrarla – sprofondarvi dentro. Altrove, Farrokhzad avrebbe dichiarato: «Stiamo vivendo in un’epoca in cui tutti i significati e tutti i valori hanno perso il loro senso e stanno per crollare. Penso che il motivo principale di una creazione artistica sia proprio il resistere di fronte a questo declino. Uno sforzo per restare, far restare qualcosa di sé e rinnegare la morte».
Nessuno pensa ai fiori / nessuno pensa ai pesci / nessuno vuole credere / che il giardino sta morendo / che il suo cuore sotto al sole / si sta gonfiando / e la sua memoria si svuota lentamente / del ricordo del verde / e il suo sentire sembra qualcosa di astratto / che si consuma in solitudine
(Mi fa pena il giardino, da Crediamo all’inizio della stagione fredda…)
Ella avvertì su di sé il peso di un’epoca di stenti e privazioni, di case che crollano e polvere nelle macerie. Erano gli anni Sessanta, l’Iran si avvicinava minacciosamente all’apice delle repressioni che la poetessa, prossima alla morte, non avrebbe conosciuto: eppure, quasi nel presagio della catastrofe, coraggiosa e audace, non tacque il suo canto. Né rinnegò mai la vita; lo scorrere fluido e impetuoso dell’esperienza; e accettò con entusiasmo persino gli istanti più dolorosi e atroci, poiché intimamente legata alla sua terra natia, che di distruzione e senso di morte era intrisa.
Non accetto di chiudermi in una stanza per guardarmi dentro. Il mondo interiore lo conosciamo osservandolo nel contatto con il mondo reale. Bisogna prima guardare fuori per poter vedere e scegliere. Quando riusciamo a trovare il nostro mondo interiore tra la gente e dentro la vita, allora possiamo, dall’interno, comunicare con il mondo che ci circonda. Quando andiamo fuori e poi torniamo a casa portiamo con noi qualcosa da fuori che finisce per legarsi strettamente al nostro mondo interiore. Se non andiamo fuori e restiamo prigionieri in casa, possiamo pensare a ciò che accade fuori, ma non abbiamo nessuna certezza che la nostra immaginazione sia in armonia con la realtà esterna. Può esserci una giornata di sole e noi pensiamo che è ancora buio, può esserci la guerra e noi pensiamo che c’è la pace. Questa forma di isolamento negativo non solo non ci salva, ma non è in alcun modo costruttiva. La poesia nasce dalla vita, ogni cosa bella, in grado di crescere, nasce dalla vita. Non bisogna sfuggirla o evitarla. Bisogna andare e sperimentare fino agli istanti più dolorosi e atroci. […] Il contatto con la vita è necessario per ogni artista. Se non fosse così di che cosa può colmarsi?
(Dalle interviste tratte della rivista letteraria Arash, n. 13)
Eppure, più che la speranza di guarigione, più della fiducia nella scienza medica, sono la preghiera e il fatalismo che uniscono e coinvolgono tutti, accomunati dalla colpevole sensazione di esser stati in qualche modo prescelti, puniti, innescando il vorticoso disagio della diversità – quello del meritato dolore. Il cibarsi, i bisogni primari, le relazioni umane paiono passare in secondo piano – come se la fame, la miseria, la solitudine fossero effetti collaterali della lebbra: e non la causa della sua propagazione. Nell’autentica testimonianza civile di una enclave di emarginazione sociale, senza compiacimenti né autocommiserazione, Farrokhzad afferma una decisa presa di posizione per la doverosa attuazione di politiche sanitarie solidali e, al tempo stesso, lancia il suo disperato grido di dolore per l’irrimediabile miseria della condizione umana. Nella distanza perfetta dalla sofferenza e dall’orrore, consapevolmente inquietante, ma senza scadere nel voyerismo, il suo sguardo ha ulteriormente trasformato un soggetto brutale, aggirando la trappola del simbolo. È riuscita a ricollegare, al di là della verità, questa lebbra a tutte le malattie del mondo, raccontandola senza risparmiare allo spettatore immagini tormentate e raccapriccianti, alternate dal commento di voci narranti che declamano le lodi a Dio con frammenti di salmi, del Corano e di poesie.
Solo in conclusione, l’intensità avvolgente della voce narrante abbandona lo spettatore a quella dei protagonisti, che, non senza sorpresa, risulta ugualmente degna – ugualmente eternata nella sua implicita icasticità. Un maestro rivolto a una classe di scolari:
– Perché dovremmo ringraziare Dio di avere un padre e una madre? Rispondi tu.
– Non lo so, io non li ho più.
– Tu, elenca qualcosa di bello.
– La luna, il sole, i fiori, giocare.
– Tu, qualcosa di brutto.
– Le mani, i piedi, la testa.
– Scrivi una frase che contenga la parola “casa”.
Lo sguardo dell’ultimo alunno – probabilmente sulla via verso la cecità – si perde in una schiera di figure malmesse, zoppicanti, sformate dalla malattia. Paiono Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, tutti compatti. Ma un portone con inciso Lebbrosario si chiude dinnanzi a loro. «Khaneh siah ast», risponde il ragazzo col volto che in niente si distingue da quello di un vecchio, imbruttito dalla miseria e dall’abbandono. La casa è nera.
Il cortile della nostra casa è solo / il cortile della nostra casa è solo / tutto il giorno, dietro la porta, / si sente il fracasso / di esplosioni e di cose frantumate / i nostri vicini al posto dei fiori / piantano nei loro giardini / granate e mitragliatrici / i nostri vicini coprono / le vasche dei loro cortili / e senza volerlo / le vasche di maiolica / diventano depositi di polvere da sparo / e i bambini del quartiere / riempiono le loro cartelle / di piccole bombe / il cortile della nostra casa è stordito / Ho paura / di questo tempo che ha perduto il suo cuore / ho paura / dell’immagine di queste mani vuote / dell’emblema di questi volti sconosciuti
(Mi fa pena il giardino, da Crediamo all’inizio della stagione fredda…)