Non fu un incidente, non lo è quasi mai: ma una morte per sofferenza. Cinquant’anni fa, il 17 ottobre 1973, moriva ustionata, intossicata nel suo appartamento romano di via Giulia, per una sigaretta caduta per errore su una vestaglia di nylon, Ingeborg Bachmann: voce austriaca, uccisa dalla sonnolenza dei barbiturici che assumeva per guarire lo stress.
Cammino per le viuzze di una piccola città mediorientale, sull’altra sponda del Mediterraneo, tra le mani la sua eredità postuma e incompiuta, Il libro Franza, presupposto di un ciclo avviato con Malina (1971) e mai completato: si sarebbe intitolato Todesarten, Cause di morte. Una catena di delitti invisibili, crimini compiuti da uomini insospettabili – psicoterapeuti, giovani e prominenti scrittori, sempre bianchi, sempre borghesi – e vittime, tutte, le donne.
Nel delicato squilibrio post-bellico, dove commettere crimini pareva diventato più difficile, dunque riuscirvi più astuto e più sublime, raffinato, intelligente, Ingeborg Bachmann intuì che il 1945 non fu una cesura, come i più preferivano credere per ripulire le coscienze, per dormire sonni tranquilli. E mentre i contemporanei giornalisti e scrittori mettevano in atto un notevole tentativo di elaborare il passato – ella guardava al futuro.
Dov’era finito il quantum del crimine, l’assassinio latente, in un’epoca in cui l’oggi era diventato difficile da rintracciare, e tutto avvolto nella bambagia, anche se solo in apparenza; in cui i massacri erano finiti, almeno nella nostra parte di mondo, ma il virus del crimine non si dileguava, no, non ancora, non era possibile: soltanto perché vent’anni prima ammazzare faceva onore, il carnefice insignito di premi e onorificenze, e adesso non più. E l’assassinio e l’orrore all’esordio di quella società – così simile a questa nostra, di oggi – occorreva che venissero svelati.
«Le cause di morte intendono mostrare come tutto questo continui in una società che si dichiara senza colpa, laddove è semplicemente venuta meno la possibilità di lasciar scorrere sangue, di torturare o di uccidere nelle camere a gas. Ma gli uomini non si sono a tal punto, e improvvisamente, trasformati in agnelli e in campioni d’indignazione. La nostra letteratura vorrebbe essere audace a spese del passato, ma ho scoperto che soggiace inconsciamente a un inganno. Senza saperlo, essa nasconde i drammi che si verificano oggi, le cause degli assassini».
I luoghi dell’azione sono Vienna, il villaggio di Galizien, il deserto arabo, quello libico, e il Sudan. Ma i luoghi decisivi dell’azione – che si trovano nel pensiero, e per due volte: una prima volta nel pensiero che conduce al crimine, e una seconda nel pensiero di chi è assassinato – sono altri: l’interiorità dell’uomo, le sue ipocrisie, il dolore che infuria nella testa e nel respiro, l’oltraggio alla vita eterna, la morte vilipesa, il disprezzo della storia, l’abbandono ai sensi, la sconfitta della civiltà greco-romana, orgia, neutro plurale, usato come noi usiamo Diana per una marca di sigarette e Apollo per il nome di un cinema, il superamento del neutro plurale, il superamento dei Greci, oscurati, sommersi in una notte egiziana sul Nilo, al completamento della Grande Diga di Assuan. L’estinzione di tutto ciò che era bianco, del ciarpame della tenerezza, delle rassicurazioni, il prodotto ideologico dell’amore, l’isteria bianca dell’inferiorità.
Scoprendo che la maggior parte della gente, ancora oggi, in Europa, non muore, semplicemente: ma viene ammazzata. Che i delitti che turbano il nostro spirito, più che i nostri sensi; quelli che insomma toccano più profondamente, avvengono senza spargimento di sangue: tra i nostri vicini, nel nostro ambiente, e dunque sotto i nostri occhi, e la strage – non meno grave – si consuma entro i limiti del lecito e della morale. E verrebbe piuttosto da dire, citando Rimbaud: les blancs débarquent, i bianchi sbarcano.
«Arrivano i bianchi. Franza: ho paura dei bianchi, ho sempre avuto paura di stare da sola con un uomo in una stanza, paura di essere soffocata da un cuscino schiacciato sul viso, di essere strangolata da chi ritiene di appartenere a una razza superiore, mi hanno smascherato, perché io sono di razza inferiore. Non aver più paura di essere strozzata, di essere avvelenata a colazione, di dover dire mille volte ti amo, di gesticolare come una marionetta, oh grazie, oh prego, come scusa, no, grazie».
Aqaba è lontana, il Nilo un ricordo, il Cairo afosa e irrespirabile, eppure sublime: Le Caire, Au Caire, kairos, ka Iroe, Kahira, la città d’oro, la Salda, la Forte, qualcosa sarà pur vero. Lì sfumano i confini, sfumano le pulsioni, offerte come possibilità, l’acqua è la più grande ricchezza, e le grandi ricchezze non si negano a nessuno – ai beduini, ai fellahin, agli stranieri –; lì in tre si diventa uno, maschi e femmine redimersi a vicenda, e volere l’intero, volere insieme qualcosa: non l’uomo la donna e la donna l’uomo, essere un’anima sola. Intuire che l’orlo del deserto arabico sia circondato di immagini di Dio infrante: e nonostante questo ignorarle, giustificati dall’esile convinzione di non possedere la lingua.
Aveva capito, Ingeborg Bachmann, che la morte dell’Occidente stava nei suoi drammi di superiorità, che nonostante i bianchi abbiano sempre avuto alibi di ferro, e nessun tentativo sia stato trascurato per togliere l’altro di mezzo, perché saltasse in aria sulle mine della loro intelligenza, dei loro piani e macchinazioni, essi si rivelano infine inferiori: guidati da nient’altro che sentimenti, gelosia, calcolo, tattica, idolatria, umiliazione, niente di vivibile, mascherati sotto il nome di amore, alternanza e rinuncia; curati, suddivisi e catalogati, se ne stanno seduti alle loro scrivanie, stupiti di ritrovarsi a sognare serpenti infuocati, voli e paludi, scopertisi incapaci a vivere così, con l’inchiostro nero di giornale sulle dita e impronte nere di missili nello spazio, armi di distruzione di massa e esportazione di democrazia.
A cinquant’anni di distanza, una voce così verrebbe da chiedersi chi l’abbia stroncata: chi, Ingeborg Bachmann, l’abbia assassinata. Le ustioni, certo, e l’intossicazione dovute al fumo e alle fiamme. Il fuoco, certo, causato dalla sigaretta caduta sul nylon. Il torpore, certo, dovuto all’assunzione incontrollata di barbiturici. I farmaci, certo, ingeriti per curare lo stress da superlavoro. Le crisi psichiche, certo, l’ansia di produttività, anche, i continui cambi di residenza, Roma, Vienna, Zurigo, gli uomini, i bianchi, quelli come noi, Max Frisch che l’aveva da poco abbandonata, la dimensione politica dei rapporti di coppia, Berlino negli anni Sessanta, i deliri, la cognizione del dolore, l’eredità del colonialismo, l’idealizzazione dell’Oriente, l’Occidente che muore. Insomma un modo di vivere, Lebensart, la società contemporanea, l’Europa del dopoguerra, che è intrinsecamente e contemporaneamente Todesart: causa di morte. E il libro Ingeborg, ad oggi, rimane incompiuto.