Musica: The Piano Sonata No. 2 in B♭ minor, Op. 35
È come guardare spezzoni di un film apocalittico. Un massacro visto dallo spioncino, che non dà alcuna opportunità di intervenire, mentre testimonianze orali e fotografiche irrompono nella nostra quotidianità attraverso i social network, raccontando delle persone intrappolate a Gaza.
«Mi sembra di vivere in un sogno», mi scrive Wael. «Perchè è surreale quello che stiamo vivendo».
Wael vive a Gaza City, dove ha casa e laboratorio: è un artista, un artigiano, un filmmaker. Due giorni prima dei bombardamenti, aveva terminato un’opera d’arte per la sua città. Una grande balena di ferro e luci. C’erano voluti mesi. «L’avevo costruita per la popolazione di Gaza, perché i gazawi non possono uscire e vedere le balene. Allora volevo dare a tutti la possibilità di vedere una balena a dimensione reale. Era un sogno. È stato distrutto il primo giorno di bombardamenti».
La scultura non è stata direttamente distrutta dall’impatto di una bomba, bensì divelta dall’onda d’urto di un ordigno caduto lì vicino. Nello stesso modo è stata violentemente danneggiata la casa di Wael. Sventrata in più punti, come se un’onda di ferro l’avesse colpita, a cazzotti, tirati in modo casuale. Sopra al gabinetto, sotto alla finestrella del bagno, un buco. Tondo e frastagliato tutto intorno, apre un varco che affaccia su un edificio ancora in piedi, nel blu polveroso e spettrale di una notte illuminata dalle esplosioni. In camera, un altro foro sopra l’armadio dei bambini, e ancora uno sotto la finestra. Dentro casa, l’onda d’urto ha fatto volare tutti gli oggetti, ricoprendoli di polvere e calcinacci. In lontananza delle sirene.
«Stanno usando delle armi, delle bombe, più forti del solito», dice Wael. Sono passati dieci giorni da quando le esplosioni hanno bucherellato casa sua. Parliamo per chat, quando trova modo di ricaricare il telefono. La connessione è lenta, è notte e stanno avvenendo fortissimi bombardamenti. «Ma in realtà sono continui, notte e giorno. Io sono fortunato perché ho i pannelli solari, e nonostante siano stati rovinati dalle esplosioni, ancora un po’ vanno».
Israele ha iniziato a bombardare Gaza undici giorni fa, dopo l’assalto del gruppo armato di Hamas contro civili israeliani indifesi, e da allora ogni notte nella Striscia è scandita dai boati delle bombe. La ritorsione militare guidata dal primo ministro Benjamin Netanyahu è pesantissima. Human Rights Watch parla di ordigni al fosforo bianco, vietati dalla “Convenzione delle Nazioni Unite su certe armi convenzionali”. Nel frattempo un missile ha distrutto l’ospedale Al Ahli di Gaza, causando 471 morti. Il governo d’Israele accusa la jihad islamica, Hamas accusa Israele, per ora non è ancora chiaro di chi sia veramente la responsabilità.
I primi giorni l’esercito israeliano avvisava i civili di lasciare certe zone, se c’erano target, mi spiega Wael. Ma in realtà i bombardamenti sembrano essere stati da subito indiscriminati: giovedì mattina scorso è stata cancellata un’intera famiglia di 13 persone, di cui 8 bambini. Sono parenti di un mio altro contatto.
L’informazione passa così, frastagliata, esclusivamente grazie ai post e ai messaggi delle persone intrappolate a Gaza. Non c’erano giornalisti internazionali dentro la Striscia quando è scoppiato il conflitto, e adesso non è concesso entrare, né a loro né a nessun altro. Così la narrazione di ciò che sta avvenendo non riesce a essere plurale. Passa per lo più tramite i profili Instagram personali dei giornalisti gazawi, e di quei cittadini che riescono ancora a caricare i cellulari. Chi grazie a un pannello solare o alle batterie delle auto. Sono state create vere e proprie “stazioni di ricarica” di fortuna. Sta a questi reporter professionisti e improvvisati documentare per il resto del mondo la distruzione e le continue vittime civili, mentre manca corrente e acqua, dopo che Israele ha staccato le forniture per piegare la popolazione. Con gli ospedali che traboccano di feriti e l’ordine, venerdì mattina, di evacuare la città di Gaza spostando più di un milione e mezzo di persone verso il sud della Striscia.
«Io non me ne vado da Gaza City. Possono seppellirmi vivo, ma non me ne vado più. Basta essere rifugiati», spiega Wael per messaggi. È mezzanotte. Fuori ci sono esplosioni rosse. Sembrano palle di fuoco. «Sono qui da solo, con Loka il cane, nel nostro edificio. I miei fratelli e le loro famiglie si sono rifugiati altrove, mia madre è bloccata in un hotel, tutt’attorno ci sono pesanti bombardamenti. Durante il giorno trasporto con la mia auto chi ne ha bisogno. Il mio cuore è diventato di pietra, non sento più la paura».
Wael è papà di due bambini. Nei giorni scorsi li ha fatti giocare e ridere con l’husky Loka. Lui stesso non ha mai smesso di ridere, di sorridere. Ha insegnato loro che a ogni piccolo successo (come sopravvivere a un bombardamento), avrebbero mostrato due dita in aria in segno di vittoria. Venerdì mattina ha postato un reel con i bimbi, in auto, assieme a dei bagagli. I bambini ridono. Ricorda La Vita è Bella di Benigni.
Controllo il suo feed ogni ora, per apprensione. Lo fa chiunque abbia un affetto a Gaza, o chiunque cerchi di informarsi. Una fotogiornalista gazawi di Associated Press, Fatima Shbair, non ha pubblicato nulla per sei giorni, ricomparendo poi con una galleria di foto solamente il 18 ottobre. Il fotoreporter di guerra Ali Jadallah è sparito dai social per due giorni interi, comparendo nuovamente sabato mattina. Il New York Times ne ha pubblicato la storia: stava seppellendo la sua intera famiglia, morta sotto i bombardamenti. È riuscito a estrarre viva dalle macerie solo la madre. Ora Ali Jadallah è tornato sul campo come reporter: sta coraggiosamente testimoniando quanto sta succedendo, raccontando dei morti e dei feriti ricoverati negli ospedali allo stremo. Con lui, fianco a fianco, c’è uno sparuto drappello di altri giornalisti e filmmaker: un cameraman e un reporter di Al-Jazeera, rispettivamente Hamdan Dahdouh e Wael al Dahdouh, il videomaker Motasem Mortaja e il fotografo Momen Faiz, su una sedia a rotelle. Aveva perso le gambe durante l’operazione “Piombo Fuso” del 2008. È tornato su Instagram anche Motaz Azaiza, dopo che il suo profilo era stato oscurato per tre giorni. E infine la filmmaker Wizard Bisan che manda costanti dirette dagli ospedali.
Sono già almeno 12, ad oggi, i giornalisti gazawi rimasti vittima dei bombardamenti dall’8 di ottobre.
Ci si aspetta che il governo di Israele stacchi anche Internet, così quando dopo una notte di silenzio arriva un segno di vita, si tira un sospiro di sollievo. Si prega nel silenzio, chi crede in Dio e chi nell’umanità, chi spera che qualcuno ai piani alti – siano essi spirituali o umani – fermi il massacro. Sì è impotenti, eppure al tempo stesso si sente dentro ribollire una forza, la forza della testimonianza, della memoria. E così, in uno dei momenti in cui la vita non è mai stata così tanto sospesa su un filo per così tante persone a Gaza, diventa importante guardare da quello spiraglio fornito dai giornalisti gazawi e dai citizen journalist improvvisati, e trasmettere ciò che si intravede.
Scegliere di scrivere di Gaza, non significa approvare le nefandezze commesse da Hamas in Israele. Tutt’altro: è chiaro che Hamas è parte del problema, un complessissimo problema che è stato già ampiamente trattato da giornalisti che seguono il conflitto israelo-palestinese. Ma Hamas a Gaza è una minoranza, su due milioni di semplici cittadini, metà dei quali minorenni e nati dopo l’elezione che ha portato proprio Hamas al potere, nel 2006.
Ho conosciuto Wael diciassette anni fa a Londra. Studiavamo entrambi alla City University. In quello stesso periodo alla City c’erano alcuni altri studenti palestinesi con borsa di studio e vari studenti israeliani. Si studiava fianco a fianco e sembrava che la pace fosse non solo possibile, ma l’unica cosa sensata. Con i palestinesi ho imparato a cucinare con lo zaa’tar, a fare l’hummus, a ballare le danze palestinesi (così simili alle nostre tarante) negli scuri locali per fumare lo shisha, e con gli israeliani a celebrare le festività ebraiche mangiando delle strane zuppe in cui mi sembrava sempre che le verdure galleggiassero, ma che erano buonissime.
Sembrava che il conflitto fosse una follia lontana, sfumata, superata. Nel frattempo però, ho conosciuto le fragilità e le ferite di chi, da entrambe le parti, cercava di trovare la propria identità. C’era chi, israeliano, difendeva i confini di Israele, ma al tempo stesso lontano da casa, a Londra, era migliore amico di un palestinese. C’era chi, da israeliano, si opponeva alla colonizzazione e sistematica oppressione del popolo palestinese. C’era poi anche chi, da israeliano, per opporsi alla leva obbligatoria finiva in prigione e poi, se dissidente intellettuale, finiva sotto sorveglianza strettissima. E poi c’era chi, palestinese di Nazareth, viveva nel senso di colpa di una vita migliore dettata dal vivere dentro Israele. C’era il palestinese della Cisgiordania che portava le ferite dei pallini di gomma (pallini di acciaio rivestiti di gomma, se sparati da una distanza ravvicinata possono anche uccidere) per avere protestato nei campi profughi di Ramallah. E poi di chi, palestinese gazawi a Londra, si sentiva un pesce fuor d’acqua mentre la sua famiglia viveva nella precarietà costante di Gaza.
Glielo leggevi negli occhi a quelli di Gaza, rispetto agli altri palestinesi: un velo che non se ne andava mai, un dolore che non poteva essere calcolato né raccontato davvero. Ho visto lo stesso velo calare sugli occhi dei colleghi ucraini incontrati mesi dopo lo scoppio della guerra, dopo l’invasione russa, dopo le atrocità, dopo le perdite.
Ecco Wael quel velo lo aveva già 17 anni fa. Forse lo aveva già da bambino, perché crescere a Gaza significa crescere nella più profonda ingiustizia: in gabbia, e in costante lotta per la sopravvivenza.
«Mi sento come se fossi in quei film apocalittici di zombie. Quello con Will Smith, come si chiamava?», scrive Wael il 12 ottobre 2023. «Io Sono Leggenda?», chiedo. «Sì, credo». E infatti le strade l’indomani mattina sono deserte e piene di detriti che fanno saltare gli pneumatici mentre Wael corre sul lungomare con l’auto. Sta spostando una famiglia con bambini. È la prima di dieci, quel giorno. Il passeggero dice: «Wael! Evacuation Mission». Missione evacuazione. Scappano in molti, e si lasciano dietro tutto. Quel 13 ottobre Wael ha continuato a spostare persone, poi ha fatto l’ultima missione di salvataggio: ha guidato per 10 chilometri tra le esplosioni per andare a salvare il cane Loka, lasciato in un recinto dal proprietario in fuga.
Quella mattina Israele aveva dato un ultimatum: i civili devono lasciare Gaza City entro la giornata. E così si creano carovane di centinaia di persone che a piedi, con i carretti, con auto e camion iniziano a muoversi verso il sud della Striscia. Poi però Middle East Eye e altre fonti, come una filmaker in diretta da un ospedale, raccontano il bombardamento dei profughi: «Era una trappola, farci lasciare la città. Restate dove siete». Sabato mattina iniziano a girare video strazianti, convogli di civili bombardati. Cadaveri ovunque. Sembrano per lo più famiglie con bambini.
Gaza City è un caos, e nessuno sa cosa sia meglio. Lasciarla o restare, nascondersi in questo o quell’edificio? Sono stati rasi al suolo interi blocchi di condomini. Lo si evince dai video del corrispondente BBC, Rushdi Abualouf e, mi spiega il giornalista Cosimo Caridi che segue ogni aggiornamento: «L’idea militare è che è più facile invadere se i palazzi sono cumuli di macerie. Non c’è possibilità che ti sparino dall’alto e quando conquisti un palazzo sulla “piazza” che hai aperto sei in una posizione di vantaggio». Domenica notte è stato bombardato addirittura un magazzino della missione delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente (Unrwa), pieno di scorte di cibo.
Quando studiavo giornalismo alla City University, durante un corso di storia del giornalismo, avevo scelto di scrivere un elaborato analizzando il libro Reporting From Palestine 1943-1944 di Barbara Board, una corrispondente di guerra donna, rarissimo all’epoca. Il libro fu inizialmente censurato dal governo britannico, e solo in seguito ristampato. Grazie a un lavoro sul campo, Board racconta pezzi di storia (ormai dimenticata) fondamentali a comprendere l’inizio del conflitto.
A giugno 2007, da stagista nella redazione di Peace Reporter, mi trovo a seguire giorno per giorno la “Battaglia di Gaza”, il colpo di stato di Hamas su Fatah, partito social-democratico palestinese fondato da Yasser Arafat. Erano giorni concitati, io mi occupavo dei bollettini sui morti, ovvero di controllare e incrociare varie fonti per fornire il numero più esatto possibile di vittime. Da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza, il blocco terrestre, aereo e navale imposto dal governo di Israele è diventato stabile. «Una punizione collettiva contro l’intera popolazione», lo definisce Amnesty International.
Da allora sono passati 16 anni, e cinque campagne militari israeliane contro Gaza. Quella in corso è la sesta. «Forse un giorno studieremo come si possa sopravvivere a 17 anni di Apartheid», commenta Christian Elia.
«La Striscia di Gaza ha subito l’occupazione israeliana per 56 anni, di cui gli ultimi 16 sono stati in lockdown: è un territorio densamente popolato, da famiglie per lo più deportate da quello che oggi è il sud di Israele», spiega David (nome di fantasia), un giovane israeliano che da anni si oppone all’oppressione che il suo Paese esercita contro il popolo palestinese.
«La strategia israeliana per trattare Gaza negli ultimi due decenni è stata chiamata “falciare l’erba”: periodicamente Israele lancia degli attacchi contro la Striscia, colpendo sia civili che obiettivi militari, e uccidendo migliaia di persone con la scusa di creare una “deterrenza” per prevenire attacchi contro Israele – racconta David -. L’abominevole attacco di Hamas della scorsa settimana, contro centinaia di civili e soldati israeliani, dimostra quanto fallimentare sia questa strategia» aggiunge. «È chiaro che una prigione all’aria aperta per 2.3 milioni di persone è destinata a esplodere: la situazione è spaventosa perché chiaramente il governo israeliano non pensa alle alternative: cerca solo vendetta. Ed è adesso che l’Europa deve frapporsi tra le fantasie di alcuni membri del governo israeliano che vorrebbero vedere la pulizia etnica nella Striscia di Gaza». David non ha fatto il servizio di leva perché, nonostante si rifiutasse di essere inserito nell’esercito, è stato fortunato a sufficienza da essere riformato per altre ragioni personali. Meno fortunati sono i suoi compagni di attivismo e battaglie politiche, abili all’arruolamento, che per il fatto di essere obiettori di coscienza sono stati arrestati e incarcerati. Sono molti gli israeliani che stanno chiedendo di fermare il massacro di Gaza, certi dell’ingiustizia, e certi al contempo che l’unica soluzione possibile sia una tregua, e il riconoscimento di uno stato palestinese.
Al momento però, il mondo guarda dallo spioncino la più massiccia azione militare israeliana degli ultimi vent’anni. Le perdite umane sono tantissime da entrambe le parti: Israele conta 1300 vittime di cui almeno 1000 civili, mentre le vittime palestinesi, in rapida e costante crescita, hanno superato la soglia dei 3400 morti, di cui 730 bambini. Ma a giudicare dai video strazianti che arrivano dai reporter sul campo nella Striscia, il livello di distruzione continua ad aumentare. Domenica mattina degli aerei dell’esercito israeliano hanno fatto piovere dei volantini dal cielo: davano ai civili di Gaza City sei ore di tempo per lasciare la città. Come ha spiegato la BBC nel notiziario della mattina, è un’azione semplicemente impossibile: gli ospedali traboccano di feriti, le ambulanze continuano ad arrivare e intere famiglie restano costantemente intrappolate sotto le macerie. A questa richiesta, alcuni giorni fa, si è opposta anche la World Health Organization, che ha chiesto a Israele di annullare l’ordine di evacuazione degli ospedali gazawi. È troppo rischioso lasciare la città, ed è altrettanto pericoloso restarci.
Nel mentre, Wael ha festeggiato il compleanno del figlio minore, con un bagno a lume di candela. Il candelabro lo hanno costruito assieme usando del legno, dandogli una forma di cuore, e dipingendolo d’oro. Le probabilità di Wael e della sua famiglia di sopravvivere all’operazione militare in corso sono difficili da calcolare. Di certo, pur nella migliore delle ipotesi, non saranno mai più gli stessi. Ogni alba sulla città fantasma, scavata a forza dalle bombe, è un traguardo. Ma Wael, nel pubblicare video in cui lui e i bambini ridono, in cui giocano, in cui mangiano l’humus, ci insegna l’immortalità. Alla violenza cieca, all’odio che tutto vuole cancellare, si risponde con la bellezza del sorriso, della vita vissuta in ogni attimo. È questa, l’unica resistenza possibile. E se anche Gaza dovesse essere spazzata via, sarà per sempre. Come la balena.
__________________________
Autrice: Cecilia Anesi, IrpiMedia
Editing: Raffaele Angius, IrpiMedia