Libano, aumentano le tensioni e cresce la minaccia della guerra sulla frontiera israeliana. Il Paese è diviso tra chi si prepara a partire e chi sceglie di restare
Un’amica è ripartita per l’Italia, questa mattina. Pur avendo avuto il tempo di salutarci con calma, a colazione, ha preferito andarsene con largo anticipo, mentre accumulava i barattoli di za‘tar e tahina comprati ai parenti nella valigia dell’ultimo momento, troppo grande per il rientro tra poche settimane che ci ha promesso, a Beirut e me. Ci si aspetta un gran traffico, file interminabili di fuggi-fuggi verso l’aeroporto, voli cancellati e messaggi imminenti dalle ambasciate straniere che avvertono: fate i bagagli, andate via. Così, chi non ha ragioni per trattenersi, parte.
Ci sorprende che i discorsi della nostra ultima sera abbiano il sapore degli esordi del Covid: deserte le strade della capitale di domenica sera; Achrafieh e Gemmayze, quartieri a Est di Beirut, svuotati degli stranieri come Bologna degli studenti fuorisede all’inizio del 2020; gli aeroporti stipati come le nostre stazioni, la notte del 7 marzo. Il desiderio, curioso e temuto, di vivere a pieno un nuovo incontro: magari un amore. L’inaccettabilità della guerra, come quella della malattia, mascherata dalla paura concepibile di rimanere bloccati dentro, di non poter scappare. La sola condizione possibile, per chi rimane, di sottovalutare il rischio, demistificare le narrative dominanti, è-arrivata-la-guerra, ripetere a sé stessi che è la scelta giusta, che non esiste un altrove, che qualcuno deve pur restare, se non altro per assistere chi non ha scelta – o fare da guardia ai gelsomini d’Arabia che non smettono di fiorire, anche se la guerra arriva davvero. I saggi ripetono che il sacrificio non serve nessuna causa, se non siamo chiamati a farne parte; gli abitudinari che si fingono nomadi – che andarsene adesso significa perdere il diritto a tornare. I nomadi veri, loro, sono già partiti, e senza lasciare traccia.
Diversamente da allora, questa guerra è reale, il nemico umano, e se c’è una possibilità di vincere, di certo non è nell’isolamento. Come allora, l’impressione che il tempo sia congelato è solo illusoria, e mentre i privilegiati sfogliano margherite per interrogare il destino – parto o non parto –, alcuni hanno già iniziato a morire. Quarantasette, tra i miliziani di Hezbollah, e già quattro civili libanesi.
Nada è sciita, di un villaggio non lontano da Nabatiye, nel Sud del Paese. La maggior parte della sua famiglia è emigrata in Australia – dove lei è nata – allo scoppio della guerra civile nel 1975, mentre il resto è stata temporaneamente sfollata in quella contro Israele nel 2006, trovando rifugio in villaggi limitrofi e poi sempre più a Nord, fino alla capitale. Lei, allora, aveva appena dieci anni: e delle sue origini, di Hezbollah e Israele, delle fattorie di Sheb‘a, delle bombe che distruggono villaggi e uccidono civili sapeva poco, e mascherava con la noncuranza la paura del pregiudizio.
«Lebs, they used to call us there», in Australia ci chiamavano Lebs, mi dice con tono calmo e senza risentimento, e sorride con amarezza a come oggi possa concepire – o persino accettare – la guerra, mentre poco più di dieci anni fa non riusciva a spiegarsi il pregiudizio, suo peggior incubo. Sapeva, tornando, a che cosa sarebbe andata incontro: a un altro, non lontano razzismo, risiedendo in un quartiere a maggioranza cristiana di Beirut Est – lei, musulmana sciita; e a un nuovo, inaspettato saluto, scandito dal luogo fuori dal tempo che è la diaspora, di cui lei è figlia.
Di certo Nada non si aspettava che sarebbero stati i suoi nonni, questa volta, a partire. Sopravvissuti a due guerre e alla lunga occupazione israeliana, senza lasciare la loro di Nabatiye, si sono messi in fila nell’affollato aeroporto Rafiq Hariri, confusi tra le enormi valigie di stranieri carichi di za‘tar e tahina comprati ai parenti. Le domando come abbiano salutato la casa – mi risponde con un sospiro.
Finalmente, adesso anche lei sa. Il pensiero che rifiuta di concepire la guerra ma accetta l’economia del non sprecare, e si distrae sulla sfida del risparmiare, è alla frutta e agli ortaggi che i nonni hanno lasciato sul tavolo; al pollo al basilico nel frigorifero acceso diciassette ore al giorno; all’albero di limone e al melograno da innaffiare; alle rose che il prossimo maggio, lei crede, la nonna, sitti, non vedrà fiorire.
Dopo essere andata a prenderli, lo scorso giovedì, per accompagnarli in aeroporto, Nada è tornata indietro per salutare il janub: il suo Sud.
«Sai quando guidi in campagna», mi dice, «e anche se non incontri nessuno, non una singola anima, hai l’impressione che la vita pur sempre continui, e anzi, che sia proprio quel vuoto, proprio quell’ampio spazio, la vita?». Sì, le rispondo, intuendo che l’attesa di una guerra permetta, per qualche giorno, pensieri più ampi. «Ecco, il Sud senza i nonni mi è parso l’esatto contrario. Tutto, intorno a me svuotato, parlava di morte. Villaggi semideserti, aria immobile, come se nessuno, neanche i fantasmi, vi avesse mai messo piede». Eppure i giardini sono curati. «Sì, chissà per quanto».
Prima di andarsene, e riprendere la strada per Beirut, passando per Sidone, sempre guardando il mare, ha ricalcato su un tessuto il motivo floreale in ferro battuto che decora il cancello della casa di famiglia – la geometria che ha resistito estati caldissime, due guerre, la ventennale occupazione israeliana del Sud del Libano, e domani chissà. In fondo non è così assurdo che si possa restare per fare da guardia a un fiore.