G8: 23 anni da Genova. Abbiamo bisogno di noi.

Non ci sono maestri per imparare il conflitto, mi disse Heidi Giuliani un giorno. Il conflitto non si insegna, il conflitto si vive.

È il 20 luglio. E i nostri pensieri sono per Carlo Giuliani. Per lui e per i morti ammazzati da gente in divisa. Sento alla radio – popolare – Lorenzo Guadagnucci, giornalista braccia rotte alla Diaz, che ricorda Armando Cestaro, quel simpatico signore con camicia a quadri e cappellino che fu quasi ucciso alla Diaz e che in un ricorso Cestaro contro Italia ebbe il riconoscimento da parte del Tribunale per i Diritti dell’Uomo, che spianò la strada all’introduzione di una legge pasticciata sulla tortura. In questi anni ho raccontato Genova in almeno quattro, cinque occupazioni di liceo. Ne ho sempre ricavato una grande attenzione, domande calibrate e un vuoto spaventoso nella conoscenza di grand parte della nostra storia politica degli ultimi anni del Novecento. Buio. Nomi come Craxi, Andreotti, Moro, figuriamoci Altissimo e Signorile. Berlusconi? Fa quasi più ridere che orrore come dovrebbe, per la slealtà verso le leggi della Repubblica e per aver sdoganato i fascisti. La storia non ci arriva a Genova, nei testi fra i banchi di scuola. Eppure, non è così lontana dalla realtà dei più giovani. Anzi. Ancora ricordi: Genova 2001 ebbe in Napoli piazza del Municipio, un anno prima, la prova generale: c’era un governo di centro sinistra. Questo è giusto scriverlo sempre, perché la distruzione del Movimento altermondialista non fu solo una questione nazionale, ma di un sistema provato e poi messo in atto sotto la vigilanza dell’occhio atlantico. Già che siamo nei ricordi, vale la pena tornare a dire che il giorno dopo l’assassinio di Carlo Giuliani i Ds, antesignani del Pd, non aderirono alla manifestazione, ma migliaia di loro elettori sì. Heidi Giuliani, l’ho sognata stanotte ed era un fiore di forza e coraggio, si sacrificò andando a sorreggere un governo in Senato, pur di avere una commissione di inchiesta, che non fu mai approvata, con la strenua opposizione della destra e i giochini di potere del centro sinistra.

Allora. Questa cifra, 23, ventitré anni dopo, ci consegna un Paese ovviamente diversissimo, dove però i temi di fondo restano tutti, ma proprio tutti (!) sul piatto. Ventitré anni dopo c’è ancora un ministro della Giustizia che cerca di far approvare una legge che vieta manifestazioni, nel caso specifico sulle grandi opere. Ci sono folkloristici uomini e donne di governo che vivono nella rivalsa del passato che li decretò perdenti. C’è una stampa docile e disattenta, capace solo di picchiare pugni nello stomaco e cercare di rovistare nelle nostre viscere.

Clima, guerre, pace, giustizia sociale, impatto sostenibile, tassazione degli extraprofitti, tasse sulle fossili, nuovo umanesimo, diritti (per dio!); quello che fu un programma internazionale alternativo venne spazzato via con morto e tante botte e torture. E i partiti politici progressisti, i loro economisti e finanzieri, non vollero – più che non seppero – rimetterci mano. A proposito: a Perugia un mese fa esatto esatto hanno presentato il “Manifesto per una nuova economia”. Un buon punto di partenza.

I cinque punti:

  1. superare l’homo oeconomicus: le nostre preferenze includono reciprocità, avversione alla diseguaglianza, altruismo, gusto per l’impatto e la generatività delle nostre azioni, oltre ad evidenziare che, come esseri umani, diamo enorme valore alle relazioni, alla ricerca dell’identità e del senso della nostra esistenza;
  2. superare l’impresa shareholder-onlyesiste una ricca varietà di organizzazioni sociali e produttive che perseguono finalità molteplici assolutamente non riconducibili all’unico scopo del massimo profitto, con implicazioni per i sistemi di governance volti a regolare diversamente i rapporti d’interesse tra gli stakeholder, in una pluralità di forme d’impresa, cooperative di consumo, di produzione, bancarie, di reinserimento lavoro, sociali, di comunità, B-corp, imprese benefit;
  3. superare il PIL verso migliori indicatori di wellbeing: il PIL non è sufficiente per valutare la qualità della vita di un Paese, servono indicatori multidimensionali per coniugare la creazione di valore economico con gli altri pilastri decisivi del futuro e della nostra felicità come sostenibilità ambientale, qualità e dignità del lavoro, valore delle relazioni;
  4. superare lo iato stato-individuo con la sussidiarietà: i fallimenti di mercato si riducono con il coinvolgimento di cittadini consapevoli ed imprese responsabili che capiscono che aumentare l’impatto positivo sociale ed ambientale delle proprie scelte è il sentiero che porta alla soddisfazione e pienezza di senso di vita; e le scelte di policy, partendo da principi di sussidiarietà verticale e orizzontale, devono anche valutare l’impatto su partecipazione, cittadinanza attiva e capitale sociale e civico, i fattori che creano lo spazio vitale per la sopravvivenza della democrazia in un contesto globale sempre più difficile e sfidante;
  5. andare verso l’interdisciplinarietà e la divulgazione scientifica per la società: le sfide enormi e complesse che stiamo vivendo sospingono anche gli economisti fuori dalla “confort zone” verso una collaborazione maggiore con studiosi di altre discipline e una maggiore azione di divulgazione scientifica per le persone e la società. 

Ci resta l’insipienza della politica, a livello globale, soprattutto quella partitica, che non si ritrova più a livello sociale nei principi di rappresentatività e coerenza. La forma partito – presente nella nostra Costituzione – è in profonda crisi da tempo e non solo in Italia. Mentre i Movimenti sono parcellizzati e chiusi in un individualismo che si è fatto strada anche nei Dna più resistenti e che nei fatti impedisce che si riformino piattaforme ampie, anche divergenti, ma unite nelle richieste e nel proporre piani alternativi.
Le lotte per l’ambiente e il genere guidano in maniera trasversale le grandi rivendicazioni internazionali, come la richiesta del diritto alla casa.

Genova, per chi c’era e per chi non c’era, resta un memento forte, anche solo un punto di riferimento per chi conosce poco di quel periodo. Ma che sa che ci fu un tentativo, quasi magico, che venne spezzato dai manganelli e sezionato nella criminalizzazione delle idee e nella grande opera del giornalismo borghese che per decenni ha dispensato l’essere moderati come la vera natura dell’uomo e della donna democratici.

Quando, in realtà, abbiamo bisogno di conflitto. E di legalità democratica, questa bellissima locuzione che significa che le leggi si devono adeguare alla trasformazione sociale. E che quindi manifestare per ottenere nuovi diritti è lecito, anche se a volte non legale.  Dire che possiamo vivere, vivere!, nel Produci Consuma Crepa, è falso. Costruire società sul PIL e sul debito è falso. La sovrastruttura cucita ad arte da secoli per tenere imprigionate le idee di trasformazione e quindi l’evoluzione, è una gabbia. Nel Novecento molte esperienze ribelli scelsero forme estreme di lotta violenta. Non siamo più lì. Ma è anche vero che adeguarsi non risolve, che cercare il dialogo con i sordi è inutile e che una nuova forma di resistenza, di massa, che unisca i puntini, che sappia tenere il punto sui suoi ‘no’, forte dei suoi ‘sì’ propositivi ci manca come l’ossigeno.

Eppure, le esperienze ci sono, e sono milioni non esagero. In tutto il mondo. Non vengono rappresentate, ma la ‘compassione’ di cui mi parlò in una intervista il sociologo Massimo Conte, il patire, sentire insieme, il mettersi al posto e in aiuto con l’altro, il sorreggersi vicendevolmente, è ancora alla base delle nostre esperienze umane.

“Io penso – mi diceva –  che questo sentire insieme ha due grandi aspetti: il primo è il fatto di riconoscere nell’altra persona una persona a cui sono legato da una comune umanità. Ma solo  dalla comune corresponsabilità, rispetto a questo legame, c’è un elemento di reciprocità e di costruzione del legame sociale. Sono convinto che dobbiamo rimettere al centro gli elementi di valore”.

Genova 23 anni dopo è ancora il seme sotto la neve.

Non ci sono maestri per imparare il conflitto, mi disse Heidi Giuliani un giorno.

Il conflitto non si insegna, il conflitto si vive.