La mia cosa preferita sono i mostri, che debutto per Emil Ferris

Ci sono esperienze di lettura totali. Di quelle che assorbono dall’inizio alla fine, senza via di scampo, facendoti immergere nel mondo immaginato dall’autore, non importa quanto strano o distante dalla tua realtà quotidiana.

Qualche tempo fa abbiamo parlato di Building stories, opera di Chris Ware. Ma si inserisce a buon diritto in questa categoria anche La mia cosa preferita sono i mostri, esordio da urlo – direbbe la madre della protagonista – di Emil Ferris.

Nomination e premi ricevuti dal primo volume – uscito nel 2017 – parlano da soli, visto che comprendono tre Eisner Award e il Fauve D’Or al festival di Angoulême: in pratica, i due riconoscimenti più prestigiosi del settore su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Come se non bastasse, grandissimi autori del fumetto come Art Spiegelman (Maus) e lo stesso Chris Ware hanno dichiarato pubblicamente tutto il loro entusiasmo per il lavoro di Emil Ferris.

Con il secondo volume, pubblicato negli USA da Fantagraphics a maggio e appena un mese dopo in Italia da Bao Publishing, quest’opera memorabile ha trovato il suo degno completamento.

Quali sono le ragioni di tanto successo e apprezzamento unanime, da parte della critica e del pubblico? Cosa rende La mia cosa preferita sono i mostri, allo stesso tempo, così unico e così familiare?

E dire che il graphic novel non è nemmeno di facile approccio: oltre 800 pagine di fumetto potrebbero scoraggiare i lettori meno motivati, ma non è decisamente il caso di farsi abbattere dalla mole dei due volumi, che consente all’autrice di dare all’opera l’ampio respiro che la caratterizza.

Siamo negli anni Sessanta a Chicago – città dove Ferris è cresciuta e vive tuttora – pienamente immersi nelle sue contraddizioni, nella bellezza e nella violenza, nelle discriminazioni e nella lotta alle diseguaglianze.

Karen è una bambina di dieci anni dallo straordinario talento per il disegno: il fumetto non è altro che il suo diario illustrato, tutto su un quaderno a righe e realizzato con la penna a sfera.

Sì avete capito bene: l’intera opera è illustrata a penna, con l’effetto di replicare non solo l’estetica, ma anche l’atmosfera del diario di una bambina, riportando il lettore indietro sulla macchina del tempo fino all’infanzia.

Il diario di Karen, tuttavia, è molto particolare: la bambina raffigura sé stessa come un lupo mannaro e si circonda dei mostri che tanto ama, al punto che molte delle persone che incontra nel mondo reale finiscono per assumere le sembianze di mummie, spettri, zombie e così via.

Che sia per dare una forma rassicurante alla brutalità che la circonda, per far fronte alla situazione familiare difficile o alla sensazione di sentirsi sempre in difetto con sé stessa, Karen osserva il mondo attraverso questa lente.

Tutto cambia il giorno in cui la vicina Anka Silverberg viene ritrovata uccisa in casa sua con un colpo di pistola: è così che la piccola Karen s’improvvisa detective, alla ricerca di una verità che i grandi sembrano volerle precludere.

Da qui la vicenda si sviluppa in modo sorprendente e stratificato, svelando una ad una le storie dei personaggi che compongono il microcosmo di Karen, a cominciare dalla madre e dal fratello Deeze, con cui la bambina condivide il talento per il disegno e la passione per i dipinti dell’Art Insitute di Chicago.

Un turbinio di forme, colori e soluzioni grafiche, con tavole che sfruttano quasi sempre la doppia pagina, avvolge il lettore, trascinandolo a forza nel mondo di Karen attraverso il suo punto di osservazione.

Un caleidoscopio che non è solo visivo, ma anche tematico, perché in questo fumetto c’è praticamente tutto: le battaglie di genere, la lotta per i diritti delle minoranze, l’amore per l’arte, il Vietnam sullo sfondo e la Chicago criminale in primo piano, in un intreccio talmente ben riuscito da sembrare inestricabile.

Temi che peraltro si dispiegano – in modo assolutamente credibile – di fronte agli occhi di una bambina, che acquisisce progressivamente consapevolezza del proprio essere e di quello che le succede intorno.

In un repertorio che spazia dalle foliazioni oversize di Craig Thompson alle atmosfere undergorund di Robert Crumb, Ferris trova una cifra espressiva unica, che speriamo di assaporare ancora in uno dei nuovi lavori già annunciati: se sapranno stupirci la metà di quanto ha fatto La mia cosa preferita sono i mostri, ci sarà comunque di che esserne contenti.