La recensione del libro “Marielle e Monica. Uma historia de amor e luta”
Ogni volta che mi capita per le mani una biografia (o autobiografia) di una celebrità o di unə personaggiə pubblicə mi chiedo quale sia la spinta che ci fa interessare a questi testi, che ce li fa scegliere tra mille altri. È solo morbosa curiosità per le vite altrui o c’è di più? Forse un desiderio di entrare in connessione, di creare empatia o di trovare ispirazione?
In un momento storico come quello in cui viviamo, nel quale sfera pubblica e sfera personale si intrecciano, influenzano e talvolta distruggono, dove la politica cede il passo al gossip e le scelte ideologiche sono oscurate dalle scelte di letto diventa difficile sentire l’autenticità del famoso motto di Audre Lorde, “il personale è politico”. Sembra invece che non ci sia più nessuna aderenza tra le due sfere e che il personale venga difeso a spada tratta, o al contrario sbandierato, proprio perché contraddice platealmente le prese di posizione politiche.
Forse è proprio questo che ci ha resə così diffidenti di fronte al racconto del quotidiano di figure pubbliche o celebrità, perché ci sembra che anche quello nasconda un inganno, e guardiamo foto non istituzionali con un misto di incredulità e fastidio, perché in fondo vogliamo sapere, ma quell’esternazione della sfera privata ci sembra tutto sommato non necessaria, ci mette nella posizione di voyeur o voyeuse che non sono neanche sicurə che quello che stanno guardando sia reale.
Questo senso di fastidio e di star osservando qualcosa di “finto” è invece totalmente assente nel libro di Monica Benicio Marielle & Monica. Uma historia de amor e luta.
Benicio, architetta, assessora dell’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro e vedova di Marielle Franco, anche lei assessora e attivista per i diritti umani assassinata a Rio il 14 marzo 2018, racconta la sua lunga e complessa storia di amore con Franco, senza tralasciare nessuno dei dettagli più intimi e personali da cui traspaiono la malinconia, la rabbia, la voglia di giustizia e l’immenso amore che la legava alla compagna.
Un libro senza veli, che non ha paura di mettere nero su bianco la bellezza e le fatiche di una relazione durata oltre un decennio durante il quale le due donne sono arrivate a conoscersi vicendevolmente più di quanto forse conoscessero se stesse, di mostrare i risvolti della vita quotidiana, le incomprensioni, le sbavature, i conflitti e l’innegabile profondità del sentimento.
E nonostante Benicio non abbia voluto tralasciare nulla degli aspetti più privati, neanche piccolezze apparentemente insignificanti e superflue, come il colore di un vestito, due ore passate in un motel o la divisione minuziosa delle faccende domestiche, tutto concorre a raccontare una storia che, lə lettorə se ne accorge fin da subito, non è semplicemente una storia personale.
Perché quella di Marielle e Monica è una storia politica, universale, nella quale chiunque abbia vissuto discriminazioni, violenza o paura a causa della propria identità può riconoscersi; è una storia politica, la storia di gruppi marginalizzati, la storia di tutte quelle persone che la società tenta costantemente di escludere e di cancellare. Ma più di tutto, è la storia di una presa di coscienza.
Di Marielle e Monica, chi non ha avuto la fortuna di conoscerle personalmente, sappiamo poco. Conosciamo il loro mito più che le loro persone e le loro storie. Conosciamo le lotte, le prese di posizione politiche, i successi, spesso senza pensare che tutto ciò è il risultato di un lungo, e talvolta doloroso, processo di crescita e di consapevolezza identitaria.
Oggi se pensiamo a Marielle Franco e Monica Benicio pensiamo a due figure ben precise, con una chiara postura politica. Donne, lesbiche, della favela, femministe, nere, nel caso di Marielle, che hanno scelto di partire dai loro corpi e dal loro posizionamento nella società per portare avanti le battaglie che le hanno rese celebri. Ma queste due donne di lotta si sono costruite (e, prima ancora, decostruite) tramite altre lotte che hanno dovuto combattere con loro stesse e con l’ambiente che le circondava.
Benicio racconta la fatica con la quale, con strade e tempi diversi, sono arrivate a fare coming out e a vivere la loro relazione apertamente; la violenza sperimentata per strada, l’ostilità incontrata nel gruppo di amicizie della parrocchia e all’interno delle stesse famiglie di origine.
«La famiglia è stata di fatto la più grande e la più difficile delle battaglie», scrive Benicio. «La maggior parte di noi impara già nei primi anni di vita che la famiglia è un luogo sicuro, affettuoso dove c’è amore incondizionato e che non esiste nulla di più importante. Che tu e i tuoi fratelli sarete amici sempre e per sempre. Che i tuoi genitori provano per te l’amore più grande che esista al mondo e che ti ameranno e proteggeranno sempre, in qualsiasi occasione. Che tutto ciò che fanno è per il tuo bene. Ma per chi appartiene alla comunità LGBTQIA+ non è così. Per noi, generalmente, il posto dove avere più paura è proprio la casa».
Se sono state le esperienze personali a creare le basi dei loro posizionamenti politici, Benicio non ha dubbi nel dire che è stata la loro relazione a innescare la miccia della lotta.
L’impossibilità di vivere il loro amore alla luce del sole, le violenze, la paura, il dover costantemente negare ciò che sapevano così chiaramente di essere, sono state tutte scintille che le hanno portare a diventare le donne che oggi conosciamo. Insieme.
Scrive Benicio: «Eravamo due donne che stavano comprendendo il loro posto nel mondo, le loro fragilità, i nostri traumi, le nostre paure, le nostre sofferenze, disposte ad andare avanti insieme, prendendoci cura l’una dell’altra e superando le difficoltà».
E poco più avanti racconta con estrema delicatezza un episodio legato alla presa di coscienza da parte di Marielle della sua identità di donna nera, attraverso il rituale dell’accettazione dei propri capelli ricci, liberi dalle costrizioni dagli standard di bellezza bianchi.
«[Nei week end, ndr] io sedevo sul divano mentre lei si metteva in terra, tra le mie gambe, e mentre guardavamo la TV o leggeva il giornale io le districavo con attenzione i capelli. Amavo quel momento di cura verso qualcosa che era per lei molto importante. Marielle ci mise degli anni per ammirare e rivendicare i suoi capelli naturali, senza usare prodotti chimici liscianti. Io la sostenevo e amavo vederla rafforzarsi nella sua identità».
Se il sostegno di Monica Benicio è stato fondamentale nella crescita politica di Marielle Franco, vale naturalmente anche il contrario, sebbene con una modalità diversa e molto più imprevista.
Per Monica, infatti, la morte di Marielle è stata uno spartiacque non solo nella sua vita personale, ma anche in quella politica. Se il lutto l’ha gettata in una profonda depressione che l’ha portata all’alcolismo e a un tentativo di suicidio, ciò che ha innescato in lei la lotta è stata la reazione del mondo davanti al suo dolore.
«Quando la stampa e la società cominciarono a correre dietro alla famiglia [di Marielle, ndr] io non venivo mai inclusa. C’era “la famiglia” e poi c’era “Monica”, e non veniva riconosciuta la legittimità della famiglia che Marielle aveva scelto e per la quale aveva lottato mentre era viva. Ci ho messo metà della mia vita per prendere il coraggio di dichiararmi lesbica. Ci sono voluti anni di lotta per poter vivere un amore che ha avuto come principale ostacolo la lesbo-fobia […] e, come se non bastasse, oltre al dolore causato dalla più grande violenza che io abbia mai subito, ho dovuto anche provare al mondo, ancora una volta, che la nostra relazione esisteva e che era legittima. […] La verità è che in una società lesbo-fobica non esiste spazio per l’amore tra donne, e ancora meno esiste spazio per il lutto di queste donne. Le nostre famiglie non sono prese in considerazione, il nostro dolore non ha valore, la nostra vita è meno importante e i nostri affetti devono restare invisibili».
Ma nell’invisibilità Monica Benicio ha deciso di non rimanerci. «Una vita intera di nostalgia, ma neanche un minuto in più di invisibilità», scrive alla fine dell’ultimo capitolo, e racconta come questa decisione l’abbia portata ad assumere pubblicamente il ruolo della vedova che cerca giustizia e a raccogliere l’eredità di Marielle, diventando a sua volta assessora e portando avanti le lotte della compagna.
Perché per Monica Benicio “luto é verbo” (in portoghese “lutto” e “io lotto” si traducono entrambi con la parola “luto”) e quella lotta ha smesso ormai da tempo di essere personale ed è diventata politica.
«Giustizia per Marielle non è semplicemente la fine di un’indagine di polizia. Questo lo Stato lo deve ai familiari di Marielle Franco e di Anderson Gomes, alla società brasiliana e alla comunità internazionale. Ma giustizia per Marielle può diventare qualcosa di concreto solo nel momento in cui trasformeremo questa società in un luogo dove tante altre Marielle possano vivere, dove possano operare in politica al pieno delle loro possibilità, dove possano crescere nella società al pieno delle loro possibilità. Senza machismo, senza misoginia, senza disuguaglianze sociali, senza differenze di territorio, di orientamento sessuale o religione, senza tutto ciò che rende difficile la vita della maggior parte della gente, che impediscono alle persone della favela di avanzare nella vita, alle donne di arrivare in posizioni di potere, che impediscono che le persone siano rispettate e vedano i propri diritti acquisiti come un dato di fatto».