Eugenia ha studiato alta pasticceria e fatto la chef nelle cucine di alcuni dei ristoranti più noti di Kyiv. Il suo ultimo impiego è stato in un locale asiatico di grido, a due passi dal centro della capitale. Snizhana ha lavorato come graphic designer in un prestigioso studio pubblicitario con uffici anche a Los Angeles e la cui sede si trova in via Vozdvyzhenska, nel cuore di Kyiv.
Di recente ha realizzato alcune installazioni video per le sfilate di moda dell’ultima edizione della Ukrainian Fashion Week, conclusasi il 6 febbraio. Oxana è sposata e ha una figlia, E., che ha frequentato la quarta elementare.
Lei e la bambina hanno vissuto in un appartamento di Kharkiv con il marito di Oxana e il gatto soriano Nix. Il motivo per cui presento queste tre donne ucraine usando il passato prossimo è che meno di un mese fa le loro vite sono cambiate radicalmente.
A partire dall’invasione russa del loro Paese, iniziata il 24 febbraio, Eugenia, Snizhana e Oxana – al pari di dieci milioni di compatrioti costretti ad abbandonare le proprie case, uno su quattro – hanno dovuto lasciarsele alle spalle e a cominciarne altre, inattese.
Eugenia ha salutato Kyiv alla volta di Leopoli, dove la ospitano amici. Si prepara a varcare il confine con la Polonia e già cerca lavoro come pasticciera o cuoca a Varsavia. Ha tanta esperienza sul campo, ma non parla polacco e conosce poche frasi in inglese.
Tuttavia, oltre a russo e ucraino, mastica anche un po’ di italiano e questo le apre alcune possibilità. Snizhana si trova ancora nella capitale ucraina, dove ha scelto di rimanere assieme al suo cagnolino. Ha trascorso le ultime cinque settimane fra i rifugi antiaerei e un maglificio improvvisato, intenta a preparare reti mimetiche e a realizzare passamontagna e biancheria termica per gli uomini e le donne impegnati nella difesa della sua città. Oxana è scappata assieme alla figlia, mentre il marito è rimasto a combattere a Kharkiv. Nella fretta le due donne si sono accorte di non avere un trasportino grande abbastanza per il loro gatto Nix, che si sono portate appresso in una scatola.
Ci hanno messo otto giorni per raggiungere Varsavia e da lì altri tre per arrivare in pullmann a Grenoble, in Francia, dove le hanno accolte alcuni parenti.
Non ho mai incontrato Eugenia, Snizhana e Oxana di persona. La prima è una conoscente della mia amica ucraina Arina, che io e mia moglie abbiamo ospitato a Varsavia agli inizi di marzo e ci ha raggiunto dalla Germania – dove lavora come psichiatra – per prestare assistenza come volontaria ai suoi connazionali rifugiatisi qui da una guerra piombatagli addosso. Snizhana, invece, è stata la responsabile di grafica, impaginazione e del profilo Instagram di una rivista letteraria online.
Un messicano e io l’avevamo co-fondata a Varsavia assieme a una sua connazionale giramondo, Yulia, che da quando è scoppiato il conflitto ha scelto di tornare dalla sua famiglia a Lutsk, nell’Ucraina occidentale.
Con Snizhana comunicavamo via chat e via mail, prima dell’uscita di un nuovo numero, scambiandoci pdf a tarda notte, visto che lei si dedicava alla rivista dopo dieci ore di lavoro. Non ci sentiamo dall’ottobre 2018 e mi è tornata in mente, colpevolmente, una decina di giorni fa. Oggi conosco la sua situazione grazie ai contenuti dei suoi profili social e ho timore di risultare inopportuno scrivendole. Con Oxana, infine, ci ha messo in contatto Arina, che l’ha conosciuta alla stazione varsaviana di Zachodnia.
Quando la Russia ha invaso militarmente l’Ucraina, ha colto di sorpresa tutti anche qui in Polonia, ma lo smarrimento è durato poco. Non appena i primi profughi hanno cominciato a varcare il confine ucraino-polacco, i varsaviani – come noi – si sono subito chiesti come aiutarli.
Pur senza far parte di alcuna associazione, centinaia di persone si sono recate sul posto con i propri mezzi, raggiungendo il valico frontaliero di Medyka e la stazione di Przemyśl, la prima in territorio polacco per chi arriva dall’Ucraina. Hanno comprato o raccolto cibo, medicinali, vestiti, portandoli sul posto e spesso offrendo passaggi in auto verso la capitale.
A loro si sono presto aggiunti i volontari di tante Ong già esistenti – spesso impegnate da anni nell’aiuto ai richiedenti asilo – che hanno concentrato i loro sforzi e le loro competenze sull’emergenza in corso. Altre associazioni e fondazioni sono sorte dal basso nel giro di pochi giorni, riunendo polacchi, ucraini e altri stranieri residenti in Polonia decisi a dare una mano. Il tutto è avvenuto spontantamente, senza alcun coordinamento del governo, ma con il supporto degli amministratori locali, come il sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski.
Cinque settimane dopo, la situazione resta simile: lo Stato polacco non ha ancora creato una rete di campi per accogliere i profughi in arrivo, limitandosi a offrire ‘rimborsi’ economici per i privati che ospitano ucraini. Al 31 marzo solo nella capitale polacca si stima che siano ospitati circa 300mila ucraini fuggiti dalla guerra: molti di loro presso famiglie, altri in strutture temporanee, qualcuno ancora all’interno delle stazioni ferroviarie.
Nel frattempo si sono moltiplicati i gruppi rivolti all’accoglienza dei nuovi arrivati su Facebook, Telegram, WhatsApp. A molti mi sono iscritto anche io e ogni giorno ricevo centinaia di notifiche. Quasi tutte sono scritti da donne e proprio le donne paiono avere preso in mano la situazione sin dall’inizio. Leggo di mamme ucraine che cercano sistemazioni temporanee per la loro famiglia o per altre. Vedo polacche che mettono a disposizione un letto, una stanza, un alloggio.
C’è chi cerca un lavoro allegando istantanee di una vita interrotta da insegnante, artigiana, esperta di marketing e chi offre un impiego. Qualcuno si propone per insegnare polacco agli ucraini o ucraino ai polacchi gratuitamente. Appaiono appelli per rintracciare animali domestici scomparsi, ma anche per capire come trasportarli in aereo in Irlanda. E poi ci sono volontari in arrivo da tutto il mondo che chiedono come o dove rendersi utili. Non sono i soli.
Ogni persona che conosco a Varsavia, italiani compresi, si sta rendendo utile in qualche modo. Alcuni amici sono stati al confine a fornire assistenza a chi vi arrivava stremato, oppure hanno portato panini agli ucraini in fila davanti al loro Consolato o distribuito zuppa calda e coperte nelle stazioni varsaviane di Centralna, Wschodnia e Zachodnia da dove transitano (e spesso trascorrono giorni interi) centinaia di migliaia di profughi. Altri hanno ospitato una famiglia intera nei loro appartamenti – comunicandosi l’essenziale per giorni con traduttori automatici – o sono disponibili a farlo, almeno per una notte.
Vi è poi chi ha contribuito con donazioni alle associazioni, oppure acquistando e consegnando medicinali, assorbenti, torce, sacchi a pelo nei punti di raccolta. Tutti hanno condiviso numeri di telefono, documenti in polacco, inglese e ucraino, database colmi di informazioni utili e aggiornati in tempo reale.
Ci sentiamo una comunità. E avvertiamo la necessità di aiutare chi arriva qui da questo inconcepibile conflitto della frontiera accanto. Lo facciamo, forse, per sentirci migliori, ma soprattutto spinti da due consapevolezze: la prima è che sul governo polacco, per ora, non possiamo contare; la seconda è legata al timore che quanto sta accadendo agli ucraini possa capitare anche a noi. Mai come ora le immagini di Kyiv o Leopoli e dei loro cieli tersi che scorrono sui nostri schermi paiono assomigliare ad altrettanti scorci a noi familiari di Varsavia o Cracovia.
Tutti qui conosciamo molti ucraini e altrettanti li incontriamo ogni giorno. Sono nostri amici, colleghi, studenti. Sono medici e infermieri quando andiamo in ospedale per una visita. Sono i professori che intervistiamo o incontriamo a convegni universitari. Sono le signore della rosticceria o del forno sotto casa, che ci porgono i loro manicaretti. Sono gli autisti degli autobus, dei tram o dei taxi che ci portano in aeroporto. Sono gli studenti che affittano l’appartamento accanto.
Sono parte di una comunità che già prima della guerra, contava circa un milione di persone in Polonia. Aiutiamo chi arriva ora, ma il timore è anche quello di prendere impegni senza sapere se saremmo in grado di mantenerli a lungo per via del lavoro e delle barriere linguistiche, non parlando né ucraino né russo. Aspettiamo di essere contattati, per rivelarci utili nel momento del bisogno. Restiamo vigili.
Nell’attesa, acquistiamo prodotti extra, facciamo circolare informazioni, coinvolgiamo amici e parenti. Mettiamo in contatto persone e agiamo da ponte fra due Paesi. Mia moglie e io l’abbiamo fatto con Arina e con un’altra ucraina, Maria, giornalista che ora si trova in Italia. Ad Eugenia abbiamo fornito contatti nel mondo della ristorazione, informazioni pratiche e l’offerta di prepararle un curriculum in polacco e italiano; aspettiamo sue notizie. A Oxana abbiamo portato un trasportino e del cibo per gatti, così da facilitare il suo viaggio verso la Francia. Sono gesti minuscoli rispetto all’impegno quotidiano di altri, ce ne rendiamo conto. Oggi, quando passiamo dalle stazioni di Wschodnia o Zachodnia e vi vediamo centinaia di donne, anziani e bambini accampati sui pavimenti – stanchi e spaesati – assistiti da volontari in pettorine gialle o rosse, comprendiamo l’importanza di essere altruisti nelle avversità.