Ungheria, quando i neonazisti prendono il potere. C’è un Paese in Europa dove i seguaci di Hitler sono al governo e al parlamento di Bruxelles. Un libro di Franco Fracassi
di Franco Fracassi, tratto da Popoff
27 maggio 2014 – Bionda, capelli a caschetto, laurea in legge all’Università di Budapest e master all’Università del Wisconsin, esperta di diritto internazionale e di diritti umani. Quando, nell’ottobre 1993, la trentenne Krisztina Morvai fece il suo ingresso al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a New York, era un avvocato pieno di sogni e di voglia di fare.
La ragazza ungherese voleva occuparsi dei diritti delle donne e dei discriminati, più in generale. Cominciò con i malati di Aids, per poi passare alle prostitute, finendo poi di trattare il tema della violenza domestica.
La bella Krisztina era tosta, combattiva. Prendeva sempre a cuore i casi di cui si occupava. Ce ne fu uno che le cambiò la vita. Il responsabile del suo ufficio le affidò il caso di un gruppo di donne palestinesi di Nablus. Secondo le informazioni che erano state raccolte, queste erano state picchiate e poi stuprate da un gruppo di soldati israeliani, che poi gli avevano bruciato la loro casa.
L’avvocato Morvai si identificò così tanto con le vittime che decise di indagare su altri casi di abusi da parte degli israeliani sulle palestinesi. Tre anni dopo, quando fu ingaggiata dalla commissione Diritti Umani dell’Unione Europea, era una vera autorità in materia. Da membro ungherese del Comitato per i Diritti delle Donne dell’Onu aveva difeso palestinesi costrette a prostituirsi, palestinesi discriminate sul lavoro, palestinesi che invano reclamavano diritti sulla loro terra, sui loro mariti e figli e sulla possibilità di spostarsi liberamente all’interno dei Territori Occupati.
Krisztina era divenuta una tale spina nel fianco del governo di Gerusalemme che Israele chiese e ottenne la sua sostituzione all’Onu e, successivamente, anche all’Ue.
L’avvocato dei diritti delle donne, oramai trentaseienne, non aveva preso bene il doppio licenziamento. Soprattutto quello a Bruxelles. Aveva scoperto, infatti, che tutti i componenti del suo ufficio venivano regolarmente spiati da microfoni, e che quello che dicevano poteva essere usato contro di loro in caso di controversie di lavoro, essendo tutti loro di nomina politica e quindi rimovibili all’istante ciascuno dal proprio governo.
Krisztina tornò in Ungheria a fare l’avvocato, senza mai abbandonare la difesa di donne palestinesi. La sua lotta legale contro quello che lei definiva un «governo razzista e discriminatorio» (Israele) era oramai divenuto un fatto personale.
Così, quando le proposero di candidarsi all’Europarlamento tra le fila del partito Jobbik (il “Movimento per un’Ungheria migliore”) accettò con grande entusiasmo.
La campagna elettorale le permise di condividere con migliaia di persone, che scendevano in piazza per ascoltarla, la sua visione dell’Ungheria e del mondo.
In un’occasione disse: «Jobbik non parla solamente, ma tradurrà le parole in azione. L’Ungheria appartiene agli ungheresi».
In un altro comizio: «Nella situazione di oggi, l’antisemitismo non è solo un nostro diritto, ma è dovere di ogni ungherese che ama la propria terra. Noi ci dobbiamo preparare per la battaglia contro gli ebrei. Così come dobbiamo prepararci a una guerra civile fra ungheresi e zingari, fomentata dagli ebrei, che si sfregano contenti le mani».
E ancora: «Sarei contenta se coloro che si definiscono fieri ebrei ungheresi se ne andassero a giocherellare con i loro piccoli peni circoncisi, invece di insultare me».
E ancora: «La gente come voi è abituata a vedere la gente come noi mettersi sull’attenti ogni volta che date sfogo alle vostre flatulenze. Dovreste per cortesia rendervi conto che tutto questo è finito. Abbiamo rialzato la testa e non tollereremo più il vostro tipo di terrore. Ci riprenderemo il nostro Paese».
Krisztina Morvai venne eletta, insieme a due altri candidati di Jobbik. Il suo partito divenne il terzo del Paese (sedici per cento). La Guardia Magiara, ovvero la sua ala militare, cominciò ad imperversare per le strade di Budapest, seminando sangue e terrore, con il consenso del governo di Viktor Orban e delle forze di polizia.
Il “Movimento per un’Ungheria migliore”, in ungherese Jobbik Magyarországért Mozgalom, o più semplicemente Jobbik, è di matrice nazionalconservatrice, populista, nazionalista e di estrema destra. In altre parole fascista e antisemita.
La scalata al potere di Jobbik, nato nel 2002 come movimento studentesco di estrema destra e trasformatosi in partito l’anno successivo, ricorda molto le esperienze di altri partiti appartenenti alla nouvelle vague populista comparsa in Europa dalla metà degli anni Novanta: il Dansk Folkeparti in Danimarca, il Pvv in Olanda.
Jobbik affonda le sue radici nei temi tradizionali dell’estrema destra ungherese e si scaglia contro quelli che vengono definiti come «nemici della patria»: zingari, gay, socialisti (o bolscevichi), capitalisti, politici corrotti e per finire l’asse Tel Aviv-Washington-Bruxelles.
La ragione storica di tutto è il «vergognoso Trattato del Trianon», che dopo la fine della grande guerra smantellò il Regno d’Ungheria riducendone il territorio di due terzi, lasciando una ferita aperta a un secolo di distanza.
Il Movimento per un’Ungheria migliore conta sulla leadership carismatica del suo segretario Gabor Vona. Il giovane leader, che non perde occasione per rivendicare le sue origini «contadine» e «anticomuniste», è dotato di una dialettica convincente e di un volto sorridente e pulito. Attributi che gli hanno consentito di conquistare spazi mediatici vitali.
E al parlamento europeo lo Jobbik ha il volto rassicurante di Krisztina Morvai, un’affascinante donna in carriera con un curriculum da giurista di livello internazionale esperta in diritti umani, nonché madre di tre figli.
Un lupo travestito da agnello è pur sempre un lupo, e a ricordarcelo ci pensano i militanti duri e puri della Guardia Magiara, l’organizzazione paramilitare legata al partito, che nel 2009 è stata messa al bando per «incitazione all’odio», dopo che in Ungheria si erano verificati alcuni attacchi mortali a danno della minoranza Rom.
Incostituzionale, eppure è frequente incontrare persone per le strade di Budapest vestite con la divisa della Guardia. Primo tra tutti Gabor Vona, il fondatore del corpo paramiliatare: «È importante che ciascuno ascolti con molta attenzione. Noi non siamo democratici. La guardia ungherese è stata creata per portare a termine il vero cambio di regime e salvare gli ungheresi».
Prima a Hoesoek Tére, la piazza degli eroi, luogo-simbolo della nazione, la Magyar Garda sfilava spesso. Poi ha iniziato a condurre pattuglie giorno e notte, per intimidire gli zingari. I suoi simpatizzanti hanno cominciato a lanciare escrementi, pietre e uova marce contro il teatro della comunità ebraica.
Altro esempio del Magyar Garda pensiero: «Il problema dei senzatetto e degli zingari si può risolvere diffondendo batteri della tubercolosi. Perché dobbiamo difenderci».
Vona e la signora Morvai no, non giungono a tanto. Ma sostengono a ogni comizio: «Chi sono gli zingari? Amano l’Ungheria o no? Hanno voglia di lavorare? Vogliono adattarsi e assimilarsi o no? Possiamo fidarci?».
La Grande Ungheria è il loro sogno. Il rifiuto del Trattato di Trianon, che nel 1918 tolse ai magiari (all’epoca parte dell’Impero asburgico) i territori ora slovacchi o romeni, è slogan e bandiera. Erano le idee-forza della dittatura dell’ammiraglio Miklos Horthy, alleato di Hitler, e degli estremisti delle Croci frecciate di Imre Szalasi.
A Budapest sfilano in centro indossando l’uniforme nera, sventolano i gagliardetti delle Croci frecciate alleate di Hitler, giurano di salvare la patria dagli zingari, dal capitalismo e dagli ebrei. A Praga contattano ogni giorno i loro camerati tedeschi della Npd neonazista, e spesso affrontano la polizia in violenti scontri di guerriglia urbana. Lo stesso avviene a Bratislava.
Europa centrale. Il neonazismo non è più solo uno spettro, né la minaccia violenta di minoranze arrabbiate ma marginali: è realtà quotidiana, è un modo di pensare che si diffonde nei salotti buoni, è una forza politica che ha imparato a sfidare la libertà sia con la violenza di piazza sia con successi elettorali e coalizioni.
Più di due decenni dopo la caduta della Cortina di ferro, tre giovani democrazie appaiono infettate da una voglia di ordine diventata mostro. E il mostro è un virus contagioso.
L’Ungheria è il caso più appariscente della nuova sfida all’Europa. Come sempre accade al fascismo, due volti vi convivono, il doppiopetto e il manganello.
Il doppiopetto è l’elegante look sportivo (camicia button down e pullover inglese) di Gabor Vona, o gli abiti chic della bionda, giovane, attraente Krisztina Morvai, avvocato e docente di giurisprudenza, ex attivista per i diritti delle donne e delle minoranze, convertita al sogno della destra nazionale.
Il manganello si chiama Magyar Garda. Conta oltre settemila aderenti, nonostante il bando governativo. È organizzata in compagnie e reggimenti. I suoi membri, entrandovi, prestano giuramento di fedeltà assoluta, come si fa in un esercito regolare. E si addestrano alle arti marziali e al tiro con le armi da fuoco.
Manganello e doppiopetto agiscono in sinergia, nell´Ungheria della crisi, conquistano la ribalta ogni giorno nella Budapest splendida, ma dove la nuova povertà e il degrado urbano, con troppe facciate di palazzi asburgici diroccate anziché risanate come in Polonia, mostrano che qualcosa non va. Ma nell´ex Europa asburgica il nuovo fascismo si diffonde anche dove le tradizioni democratiche dovrebbero essere più solide.
Guardiamo poco più a ovest, nella splendida, prospera Praga, capitale di un Paese devastato dal mezzo secolo di alleanza con Mosca e ora tornato al capitalismo ma anche segnato dalla corruzione e dall´instabilità politica.
Il partito neofascista ceco è in prima fila contro i piani Nato sullo scudo difensivo in Cechia e Polonia. E sull’esempio magiaro, il Partito nazionale ha fondato una sua milizia paramilitare. Guidato da Petra Edelmannova, il partito propone la «soluzione finale della questione degli zingari».
Anche il Partito nazionalista slovacco (Sns) ha una sua ala militare (che coincide con gli ultrà di calcio) che imperversa per le strade di Bratislava, terrorizzando gli immigrati e i rom.
Il leader di Sns è Jan Slota, politico di provincia che ama abbandonarsi a eccessi alcolici per poi scatenarsi ancor meglio nei comizi. Propone «la frusta» per risolvere «il problema degli zingari», sogna di diventare europarlamentare per «rendere di nuovo vive le acque marce e sporche di Bruxelles e di Strasburgo». I suoi bersagli preferiti sono, oltre ai gitani, la minoranza ungherese e gli omosessuali, «da internare prima e da deportare poi».
E anche in Slovacchia, come in Ungheria e nella Repubblica ceca, la polizia non cerca di impedire i pestaggi. Anzi, sta dalla parte delle squadracce.
L’estrema destra europea si riunisce con regolarità. Stabilisce strategie politiche, piani d’azione, campagne di finanziamento. Alle riunioni partecipano i movimenti ipernazionalisti, quelli neofascisti, i neonazisti, gli xenofobi.
Alla complessa galassia dell’estrema destra appartengono partiti e movimenti molto diversi. Tutti, però, con il medesimo obiettivo, far risorgere il Terzo Reich e il credo e i valori di Adolf Hitler e di Benito Mussolini. Tutti con gli stessi legami oltre oceano. Tutti con la stessa fonte di finanziamento.