La Firenze nel nulla

Viaggio nell’estremo nordest nella speculazione edilizia cinese. Al confine con la Mongolia Interna sorgerà un outlet uguale in tutto e per tutto a Firenze: ecco come funzionano i meccanismi decisionali che portano alle colate di cemento

di Gabriele Battaglia,
da Pechino

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Un caucasico in Cina ha un’opportunità di lavoro per i tempi grami: la “faccia bianca”. In mandarino si dice bai mian e consiste nel prestare la propria “occidentalità” al businessman cinese di turno. Non devi fare niente, giusto stare lì e fare presenza, aggiungendo così valore alla sua azienda mentre lui cerca di vendere un servizio, stringere accordi strategici, intercettare finanziamenti.

Per l’uomo d’affari avveduto, il bianco d’accompagnamento (“escort”, alla lettera) è sinonimo di sofisticatezza, professionalità, stile, guanxi – contatti “giusti” – affidabilità. Sei lo stereotipo positivo portatile e se ti capita di essere italiano, si capisce, diventi automaticamente un dispenser ambulante di gusto & stile. Un paio di volte è successo anche a chi scrive. Eccone una.

Un amico architetto parte per Shenyang, nella provincia del Liaoning (nordest cinese), perché lui e tutto il suo staff sono stati “affittati” da un costruttore locale proprio in quanto “studio italiano”. Lo scopo è infatti quello di “vendere” al governo della contea un progetto di sviluppo immobiliare: un centro commerciale diffuso su non so quanti ettari che sarà una riproduzione di Firenze. Sì, proprio una città in miniatura, con tanto di vicoli che convergono in una piazza dove sorgerà la sorella gemella di Santa Croce. Il tutto, votato allo shopping compulsivo.

Invece di ridere o scandalizzarci, pensiamo invece ai nostri outlet sperduti nelle risaie che citano improbabili città del Far West o Polis greche. Chi di cattedrale nel deserto ferisce, di cattedrale nel deserto perisce.

John, il mio amico, ha subappaltato ad altri italiani il design vero e proprio. Ma la “faccia” è lui, quindi se ne fa carico in quanto capo progetto e si mette in marcia verso il Dongbei (nord-est) con le sue assistenti cinesi, Linda e Lola e con il “capo designer appena sbarcato dall’Italia”: io. Completo senza cravatta “da creativo” e barba appena accennata, dovrò fingere di non capire e parlare mezza parola di cinese e, se proprio proprio non riuscirò a contenermi, avrò il permesso di lanciarmi in una dotta dissertazione in inglese sulla bellezza delle città d’arte italiane. Al momento giusto, si capisce. Quale esso sia, si vedrà. In treno, John mi fa vedere il progetto su un portatile, definendolo esplicitamente “una schifezza” e auspicando che non passi l’esame del comitato di contea, “che poi se mi tocca pure firmarlo e finisce che mi rovino la reputazione in tutto il giro degli architetti”.

Ma ti hanno pagato bene, no?

“Ma che pagato, è già tanto se rientro dei costi”. Lui lo fa per una questione di guanxi, di buoni rapporti, non ha potuto rifiutare.

Ma perché questo tipo vuole avere una Firenze nel nulla? John indica quello che sta intorno all’outlet vero e proprio: “Ecco il solito compound di palazzi da quaranta piani per millecinquecento appartamenti”. È la tipica speculazione alla cinese, dunque: appartamenti che resteranno probabilmente vuoti ma che faranno crescere ulteriormente i valori immobiliari. Finché un giorno, forse, la bolla non scoppierà.

Tra le viuzze dell’outlet, ecco Santa Croce.

“Mi hanno mandato la foto di una chiesa per spiegarmi come la volevano. Era una chiesa ungherese, capisci? Volevano metterla in mezzo a Firenze. Per loro una chiesa è quella roba lì, punto. Ho avuto un sussulto di dignità, gli ho rispedito le immagini di Santa Croce e sono riuscito a far capire loro che a Firenze ci stava meglio. Ah, e sai perché ci vogliono la chiesa perfettamente funzionante? Per farci i matrimoni, che è una cosa che va di moda. Altro business”.

Arrivati a Shenyang mentre il termometro segna -17°, troviamo ad attenderci un enorme pickup Ford. È sera, l’autista è un uomo di mezza età che parte spedito verso la contea di Zhangwu, la nostra meta, al confine con la Mongolia Interna. Si tratta di un centinaio di chilometri e dovremmo prendere l’autostrada, ma una mezz’oretta dopo essere usciti dall’abitato, siamo ancora su strade di campagna contornate da neve e dal buio pesto. Lui sembra indeciso sul da farsi e alla fine confessa: “Mi sono perso”. Infatti non è un autista, bensì il fratello del palazzinaro, che si è offerto di venirci a prendere. Mi viene il sospetto che volesse farsi un giro sul pickup. O, in alternativa, il buon Yan Lei ha deciso di risparmiare. Con estremo candore, l’uomo aggiunge: “La realtà è che non ci vedo bene, per cui potrei essermi perso qualche cartello”. Sperando che veda almeno la strada, cerchiamo di dargli una mano con le indicazioni. Alla fine troviamo per caso l’autostrada e alle undici di sera arriviamo di fronte a un ristorante di Zhangwu, dove il nostro ospite ci sta attendendo. È un uomo sulla quarantina, con quei dieci chili in più che nelle province del Dragone identificano il benessere e il potere. Molto affabile, quasi premuroso, veste una camicia senza colletto tipicamente cinese. Ci conduce nella baojian, il privé, dove un grande tavolo circolare è stato imbandito apposta per noi. Tralascio i dettagli della cena perché ricordo solo un maiale fritto in agrodolce, ma chi sa qualcosa di Cina può immaginare da sé: tutto buonissimo, tutto abbondante, nuove scoperte culinarie in gran quantità. Io guardo qua e là con la faccia spaesata che mi sembra si addica a un laowai appena sbarcato. John invece recita la parte del boss che si fa tradurre tutto dalle due assistenti. Quella di non parlare minimamente cinese è una sua scelta, fa parte di una filosofia di vita e di una strategia di sopravvivenza: “Così mi preservo”, dice lui.

Intorno a noi, cameriere che sbadigliano.

Siamo alloggiati nell’unico hotel “di rappresentanza” della cittadina. La mattina dopo, scopriamo che la sala dove presenteremo il progetto è nello stesso albergo, esattamente di fronte alle nostre stanze: porta – un passo – porta. È come se uscissimo da camerini dietro un palcoscenico per mettere in scena il nostro spettacolo. O forse è esattamente così.

Sono le dieci, ci troviamo in una sala con un enorme tavolo al centro, attorno a quale siedono una ventina di alti funzionari della contea. C’è il capo circoscrizione, piccolo e con una grande bocca da rana, dritto davanti a me. Le donne sono un paio, c’è pure un militare pieno di galloni, alamari e mostrine.

Yan Lei è seduto al mio fianco. Parla per mezz’ora magnificando il nuovo progetto di sviluppo immobiliare. Ci crede, o almeno così sembra. Si sofferma soprattutto su un punto: costruire una piccola Firenze è un passaggio pressoché indispensabile per attirare l’attenzione su una remota circoscrizione sperduta nel Dongbei cinese. Dà lustro, ha già funzionato in altri luoghi della Cina, facendoli risorgere.

Il capo contea segue con attenzione, annuisce, ogni tanto sgrana gli occhi, così come cinque o sei altri funzionari. Gli altri non sembrano particolarmente interessati, tre dormono, tutti sbadigliano. Una ragazza dalla sguardo indecifrabile ci riprende con una videocamera professionale.

Poi è la volta di Lola e John. Le immagini del progetto scorrono su uno schermo, mentre lui spara quello che gli viene in mente, in inglese: “La città medievale italiana favoriva gli scambi”, “le stradine curve bla bla bla” e via di questo passo.

Lola traduce in cinese. Dicendo tutt’altro.

Sì, perché si erano già messi d’accordo. Lola aveva preparato per giorni un discorsetto in cinese e John ha insistito perché lo ripetesse per filo e per segno, senza curarsi di quanto avrebbe detto lui: “È emotiva, se è costretta a tradurre finisce che fa casino”.

Quindi mentre John fantastica di “cultura medicea”, Lola enuncia i metri quadri destinati al residenziale, in uno stralunato contrappunto.

La recita assurda va avanti per un quarto d’ora, durante il quale mi guardo bene dall’intervenire.

Al termine, il capo contea chiama l’applauso e gli astanti sembrano risvegliarsi dal torpore.

Poi parla: “Questo è un progetto bellissimo, ora è nostro compito farlo diventare realtà”.

Applauso. Fine.

Chiuso.

Così, in quarantacinque minuti, nasce una cattedrale nel deserto. Così si gonfia la bolla immobiliare, così si alimenta la corruzione.

Linda, che ne ha viste parecchie, è stupefatta: “Non ho mai assistito a una decisione presa così in fretta, giuro che è la prima volta in vita mia. Si vede che Yan Lei l’ha già pagato”.

A chi si riferisca è evidente: al capo contea.

Grandi strette di mano, grandi sorrisi. Ci caricano in macchina e ci rispediscono a Shenyang: c’è un treno che aspetta.



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