Messaggio da Teheran

Dall’Iran, oggi, arriva un segnale forte. L’elezione di Hassan Rohani a presidente della Repubblica Islamica dell’Iran segna, rispetto a differenti punti di vista, uno snodo. Tutto da verificare

di Christian Elia

Nessuna certezza, questo è chiaro. Alcuni elementi interessanti, però, da questa tornata elettorale in Iran emergono con forza. La vittoria al primo turno di Hassan Rohani, con il 50,68 per cento dei voti, per esempio, è un segnale forte. Coloro che vogliono un Paese diverso, più aperto all’interno e all’esterno, sono la maggioranza. Basta aver frequentato il bazar di Teheran e le sue feste notturne, i pic nic in montagna e i mille caffè, aver parlato con gli studenti e gli intellettuali iraniani per saperlo. Se anche questa fortuna, quella di visitare uno dei paesi più belli e dall’anima cosmopolita del mondo, non la si è mai avuta, basta ricordare il 2009.

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La chiamarono Onda Verde quella rabbia di fronte al voto scomparso. Erano giovani e adulti, uomini e donne, che avevano votato con fiducia per impedire un secondo mandato di Mahmud Ahmadinejad. Tutti ricordano, almeno si spera, come andò a finire. Una brutale repressione, i leader dell’opposizione silenziati, gli attivisti svaniti nelle carceri. Questo è il primo segnale che arriva dall’Iran: il regime questa volta non ha barato. Ha proclamato vincitore chi ha vinto per davvero. E non è poco.

Sarebbe per lo meno ingenuo ritenere questo un segnale inequivocabile di cambiamento, ma è importante che l’entourage della Guida Suprema Alì Khamenei abbia ritenuto necessario ammettere la sconfitta del candidato prediletto, l’ex negoziatore nucleare Said Jalil, che ha ottenuto solo il 12 per cento dei voti. Ancora meno per Alì Velayati, consigliere diplomatico di Khamenei. Anche l’indipendente Mohsen Rezai ha fatto meglio di loro. Il secondo classificato è il sindaco conservatore di Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf, con il 36,4 per cento dei voti.

L’altro segnale importante che ci lanciano gli iraniani è quello dell’affluenza. L’80 per cento degli aventi diritto, nel Paese e all’estero, si è recato alle urne. Questo è davvero un segnale confortante, perché vuole dire che la repressione del 2009 ha portato via le vite di tanti oppositori, ma non è riuscita a uccidere la voglia di cambiare. Da questa parte della società iraniana bisogna ripartire, senza nessun avventurismo di democrazia da esportazione. Per la quale, da Abu Ghraib allo scandalo delle intercettazioni dei cittadini negli Usa,  non c’è nessuna credibilità.

Adesso bisogna capire quanto Hassan Rohani, 64 anni, saprà mantenere le promesse elettorali. Unico religioso in corsa, Rohani è stato vicino all’ex presidente Mohammed Khatami, simbolo di due mandati presidenziali che – prima di Ahmadinejad – avevano di sicuro allentato la morsa del regime sulla società civile, ma aveva anche deluso le aspettative dei riformisti. Rohani ha promesso di cambiare le cose, aspettiamo. Di sicuro si trova ad affrontare una drammatica crisi economica, che sta rendendo la vita quotidiana in Iran ogni giorno più drammatica. Ad Ahmadinejad, alla fine, è mancata la capacità di combattere le diseguaglianze del Paese che l’embargo e la crisi hanno invece accentuato.

L’ultima fase del secondo mandato di Ahmadinejad è stata caratterizzata da una sanguinosa guerra interna al fronte conservatore. Le divergenze tra l’ex presidente e la Guida Suprema hanno raggiunto vette inaccettabili per il regime, con arresti eccellenti e dispute teologiche. In realtà, quello che divideva l’establishment, era la politica estera. La presidenza di Ahmadinejad, dal 2004 a oggi, è stata segnata da una rinascita dell’internazionalismo sciita che, dopo la guerra con l’Iraq degli anni Ottanta, gli ayatollah erano restii a condurre.

L’ex presidente, dallo Yemen al Bahrein, non ha mai fatto mancare il suo appoggio agli sciiti nei paesi dove sono una minoranza vessata. La sensazione è che il fronte conservatore debba ritrovarsi, ricomponendo una frattura nella quale i sostenitori di Rohani (che adesso sono riconoscibili da oggetti di colore viola) si sono saputi infilare. Questo è il terzo elemento importante. L’asse sciita, nato dal rovesciamento del regime di Saddam in Iraq nel 2003, che portava alla nascita di un blocco sciita forte da Hezbollah in Libano, passando per il regime di Assad in Siria (paese a maggioranza sunnita, ma governato dalla setta alevita, vicina agli sciiti) ed Hamas in Palestina (sunniti, ma finanziati per anni dall’Iran), fino a Teheran, è in crisi.

Rohani non ha l’impostazione internazionalista ed è più facile immaginare una politica estera soft, pronta a trattare sul dossier nucleare. Il voto di ieri in Iran rende Assad ancora più solo, mentre il Qatar (ormai attore chiave della politica estera delle monarchie sunnite del Golfo) ha da tempo riportato Hamas sotto la sua influenza. Staremo a vedere, ma di sicuro il voto in Iran – per ora- ha tutta l’aria di un momento di svolta.



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