Che cosa succederebbe se gli oggetti della Ddr fossero messi al bando come chiede la Cdu? Molto probabilmente la metà dei mercatini delle pulci sarebbe spazzata via così come all’improvviso dovrebbero scomparire tanti oggetti di uso comune che 23 anni dopo la Wende non hanno fatto in tempo ad andare in pensione
di Nicola Sessa, da Berlino
Che cosa sono le memorabilia? Oggetti appartenuti a personaggi dello spettacolo o dello sport, del cinema oppure a idoli trasversali che attraversano diverse generazioni e differenti paesi. Si tratta di gadget troppo recenti perché possano entrare nel mondo dell’antiquariato e che si conservano su quella sottile linea mentale che separa la nostalgia dal feticismo.
Chi di noi non ha in casa almeno uno di questi oggetti? Non importa se si tratta di memorabilia riconducibili alla nostra vita personale, alle nostre passioni o più comunemente a un determinato periodo storico del proprio paese. E diciamocela tutta: il più delle volte, le nostre preziose memorabilia sono ricoperte da qualche centimetro di polvere e ci ricordiamo di avercele solo quando per caso ci inciampiamo o quando riemergono all’improvviso dal cassetto di una scrivania.
Il concetto di memorabilia assume in Germania una valenza del tutto particolare: ciò vale particolarmente per due periodi storici contrapposti nelle ideologie e nella descrizione del mito germanico, ma accomunati dall’epilogo catastrofico e dalla sentenza di condanna ancor più disastrosa nel senso comune dei contemporanei.
Gli oggetti di hitleriana memoria (a differenza di quanto accade in Italia, dove si stampano annualmente i calendari di Mussolini) sono banditi e il commercio, la detenzione e la divulgazione sono puniti con la reclusione fino a tre anni. Così non è, invece, per le memorabilia della fu Repubblica Democratica Tedesca – la Ddr. Almeno fino a oggi. Perché qualcosa è cambiato dopo il 9 maggio scorso, giorno della Vittoria che ricorda l’espugnazione di Berlino da parte dell’Armata Rossa. Il fatto che al memoriale russo di Treptower Park abbiano sfilato – in divisa – anche alcuni veterani della Stasi (il repressivo organo di “sicurezza” interna della Ddr) ha sollevato un polverone sul dibattito politico, spingendo un esponente dell’Unione cristiano democratica (Cdu) a chiedere la messa al bando degli oggetti che ricordano la Ddr, al pari di quelli ornati dalla svastica.
Lungi dal voler dare in questa sede un qualsiasi giudizio sulla storia e la natura della Ddr, appare sproporzionato l’accostamento tra i due periodi storici, perché è quello di cui alla fine si parla. Certo, è condivisibile lo sdegno nel vedere le divise della Stasi sfilare in una commemorazione ufficiale, soprattutto quando si pensa a quelle persone – tante – che hanno saggiato sulla propria pelle le “attenzioni” della polizia politica. Ma la Ddr non era solo la Stasi; era anche – e per moltissimi tutt’oggi è ancora – Heimat, parola che per i tedeschi ha un significato più profondo ed esteso della nostra Patria.
Che cosa succederebbe se gli oggetti della Ddr fossero messi al bando come chiede la Cdu? Molto probabilmente la metà dei mercatini delle pulci sarebbe spazzata via così come all’improvviso dovrebbero scomparire tanti oggetti di uso comune che 23 anni dopo la Wende non hanno fatto in tempo ad andare in pensione: dalle sigarette bianconere Karo alle migliaia di Trabant o Simson che ancora circolano sulle strade tedesche. Le memorabilia della Ddr non si riducono alle bandiere e alle medaglie con compasso e martello. Le biografie degli ex cittadini della Ddr sono scritte nella quotidianità di Dresda, Lipsia, Eisenhüttenstadt, Berlino, Rostok, Cottbus. Perché a chi è cresciuto nella Ddr non va di sentirsi dire come avrebbero dovuto reagire, come avrebbero dovuto resistere. Ed ecco allora che il rapporto con il passato, soprattutto per le generazioni di cinquantenni-sessantenni assume un’importanza del tutto singolare. Non si tratta del fanatismo che può cogliere la testa rasata che indossa un berretto con le insegne delle SS, bensì di una relazione medianica con i migliori anni della loro vita, della gioventù e per chi ci credeva davvero, di una vita e società socialista in cui ognuno ricopriva un ruolo fondamentale per gli altri.
Fare un tour nello Spree Park di Berlino, ridotto (o assurto) a una sorta di Pompei dei parchi giochi e rendersi conto che quasi tutti i visitatori sono coppie attempate che su quelle giostre trent’anni fa si sono scambiati i primi baci, è un’esperienza interessante e coinvolgente. Lo stesso accade, se si presta attenzione, nei flea markets della domenica. Tra la folla di turisti ancora a caccia dell’affare o del ricordo da riportare a casa, si possono vedere decine di persone che si aggirano tra le bancarelle, che con le punta delle dita sfiorano i tasti delle macchine Robotron, si perdono sfogliando i libri fotografici della Ddr, spulciano tra le cartoline e i certificati di “buon socialista”, sfogliano i manuali dei Pionieri e qualche vecchio numero del Neues Deutschland.
Qualche nota di romantica nostalgia, al netto delle mille storture provocate dal partito unico socialista, cui molti tedeschi non vogliono rinunciare. Il compasso e il martello non sono la svastica. Gli Ossi hanno subìto e accettato la dissoluzione della loro Heimat e l’unificazione a senso unico, dove tutto il buono veniva con il vento dell’ovest e tutto ciò che c’era da riformare era all’est. Non accetteranno che i simboli del loro passato vengano messi sullo stesso livello di quello nazista e non accetteranno, soprattutto, la lezione da un partito, la Cdu (con la collaborazione dell’alleato Fdp), che fino al dicembre del 2011 ha tenuto nascosto il passato nazista di 25 ministri, un cancelliere e un presidente della Repubblica che nella maggior parte dei casi avevano in tasca la tessera della Cdu.