Portogallo, 27 giugno prossimo, sciopero generale. Da Lisbona un’analisi che coglie il malessere sociale e politico che getta ponti tra il Brasile e la Turchia, passando per gli impiegati portoghesi del settore pubblico
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-20-alle-18.34.04.png[/author_image] [author_info]di Marcello Sacco, da Lisbona. Nato a Lecce, vive da anni a Lisbona, dove lavora come professore, traduttore e giornalista free lance [/author_info] [/author]
Per tentare di capire la crisi portoghese, e forse un po’ l’europea, si potrebbe provare a lanciare sul Portogallo uno sguardo strabico: un occhio alla Turchia e l’altro al Brasile. Cosa succedeva nel piccolo Paese atlantico, tartassato dal “risanamento” del debito, proprio nei giorni in cui il popolo di Istanbul invadeva la piazza per difendere i suoi alberi contro un centro commerciale, e una valanga di brasiliani si ribellava all’aumento del biglietto dell’autobus? Si discuteva se fosse giusto o meno ritardare di qualche giorno gli esami di maturità a causa di uno sciopero dei professori, che usavano gli innocenti allievi come ostaggi per le loro egoistiche rivendicazioni.
Eppure quello sciopero (assaggio del prossimo, generale, del 27 giugno) era stato proclamato in risposta all’annuncio di “mobilità speciale” per migliaia di loro, senza contare le altre decine di migliaia di funzionari pubblici che presto dovranno “scegliere” le condizioni meno dolorose per rescindere il proprio contratto con lo Stato e reinventarsi la vita, magari con un mutuo trentennale sulle spalle e un paio di figli all’università pronti a far scattare le statistiche sulla disoccupazione giovanile oltre l’attuale soglia del 43%.
Per capirci: lo Stato annuncia l’equivalente di una cassa integrazione per migliaia di suoi dipendenti e all’improvviso – in un Paese in cui è diventato quasi di cattivo gusto difendere la troika, dove tutti parlano male del governo (soprattutto gli uomini di governo, con la loro calibrata messinscena di divorzio imminente tra popolari e socialdemocratici) – al primo sciopero che rischia di creare effettivamente qualche contrattempo al padre di famiglia che ancora ha i soldi per programmare le vacanze di luglio, l’opinione pubblica si scandalizza e in parte si schiera col ministro che medita la precettazione (poi impedita da un tribunale arbitrale, ulteriore conferma, dopo le ripetute bocciature inflitte dalla Corte Costituzionale alla finanziaria, che i metodi di governo in tempi di crisi fanno a pugni con la legge).
Certo, i conoscitori della realtà turca e brasiliana diranno che non di soli alberi si trattava a piazza Taksim, né di soli autobus a San Paolo. Invece in Portogallo (ecco perché può essere significativo osservarlo) il sistema Europa sembra malgrado tutto reggere alla disfatta. Forse grazie alla libera circolazione all’interno dello spazio europeo, le zone depresse restano depresse, ma le gocce non fanno ancora traboccare i vasi. Eppure proviamo a fare un banale esercizio di lettura, sfogliando un giornale qualsiasi, tra i più autorevoli come Publico di un giorno qualsiasi, per esempio il 18 giugno, all’indomani dello sciopero. Oltre allo speciale esami di maturità (da pag. 2 a pag. 9), a pag. 10 si leggono i risultati di uno studio dell’Osservatorio Portoghese sul Sistema Sanitario che denuncia lacune nei dati ufficiali del ministero e riporta, solo nella zona di Lisbona, un calo del 30% degli accessi ai servizi sanitari di base a causa dell’impossibilità di pagarli. A pag. 13 un’analisi della spesa delle famiglie rivela che i più poveri spendono il 27% in meno per mangiare, ma la crisi non colpisce i più ricchi, dove si nota “un’enorme stabilità dei coefficienti di bilancio della spesa totale”. Nella pagina accanto, la 12, uno studio della Caritas afferma che, dopo tanti anni e tanti milioni di investimenti, il rischio povertà riguarda ancora il 23,5% della popolazione portoghese, e si propone di reinserire i disoccupati rispolverando alcune figure professionali considerate socialmente utili, come il “nonno” (cioè un anziano sorvegliante a scuola) o il lustrascarpe. La buonanima di Zavattini pare abbia chiesto d’urgenza l’invio di carta e penna.
In un’Europa con queste prospettive, quello che manca è proprio l’ “albero” e il “biglietto”, cioè una motivazione simbolica forte capace di coadunare forze, che invece si guardano in cagnesco: il commerciante contro lo statale “fannullone”, questo contro il professore che, a parità di stipendio, si gode tre mesi di vacanze. E allargando lo sguardo su scala europea: il nordico contro il mediterraneo, l’anglosassone contro tutti, il francofono… boh? L’albero turco e il biglietto brasiliano sono simboli che qualcuno chiamerà “ideologie”, termine oramai denigrativo che per gli europei va bene solo in contesti extraeuropei: un’idea rivoluzionaria, al di qua di un certo confine, è un’ideologia obsoleta. E i nemici delle ideologie non potranno non amare una nazione come il Portogallo, che più in fretta di tutte, in questi decenni, ha proceduto a una deideologizzazione di massa parallela alla dismissione di vari settori dell’economia tradizionale. Eppure solo in contesti del tutto deideologizzati si può permettere, per esempio, ciò che in Italia, se lo propone la Lega, provoca una sacrosanta levata di scudi: le gabbie salariali, ossia differenze abissali di trattamento sul lavoro (quando c’è) che l’ide(ologi)a di nazione rende riprovevoli, ma in una “zona monetaria comune” è normale, anzi raccomandabile. “In fondo qui da voi la vita costa meno”, quanti greci e portoghesi non se lo sentono ripetere ogni giorno da vacanzieri incantati dai prezzi in trattoria?
Certo, finché la moneta c’è stata, diciamocelo, l’ubriacatura era piacevole. Chi in Portogallo, negli anni ’90, immaginava di poter criticare un centro commerciale senza passare per barboso veteromarxista? E chi, prima del 2004 (anno dell’Europeo di calcio), ha avuto il coraggio dei brasiliani di oggi di dire “meno stadi e più equità”? Ricordo timidi interventi di qualche intellettuale più “viaggiato” che faceva notare come la Milano di Inter e Milan avesse un solo stadio comunale, mentre a Lisbona si ricostruivano dalla radice due dei suoi quattro stadi, e in città come Faro e Leiria (con squadre del livello di una nostra alta classifica di serie C) se ne innalzavano di nuovi da decine di migliaia di posti. Criticare quel modello di sviluppo suonava appunto ideologico, noioso, triste.
Poi, si sa, le ideologie cacciate dalla porta incocciano le finestre che meno ti aspetti. Dalle più retrive e spaventose alle folcloristiche. Ancora oggi, a proposito di Brasile e brasiliani, ricevo più petizioni da firmare contro l’accordo ortografico, che abolisce le consonanti mute, che contro i tagli ai teatri pubblici, che in Portogallo stanno ammutolendo centinaia di attori, cantanti e professori d’orchestra.