Lo sport ha sempre da insegnare, nel bene e nel male, anche quando non vuole. Nella boxe vive, tra le altre, una leggenda: la scuola cubana e il rifiuto del professionismo
di Christian Elia
La notizia è di quelle rumorose. Come una ventrina che va in frantumi. Nel 1962 la Cuba rivoluzionaria dice basta al professionismo nello sport. Partendo da una filosofia di fondo, che vuol negare un fine mercantile alle attività sportive, nobilitandole come parte integrante della vita.
Lo Stato, madre e padre, crea un bacino di talenti unico al mondo. La naturale predisposizione del popolo cubano, inno fiero al meticciato, accompagnata da grandi tecnici, sforna campioni in serie. Nel baseball, nell’atletica, ma nulla paragonato al pugilato.
Semplicemente la boxe a Cuba è come il mare, la canna da zucchero e Che Guevara. Un brodo primordiale, dove si generano fenomeni per gemmazione naturale. Tutti dilettanti. Adesso, per la prima volta, si parla di compensi. Accade che la federazione cubana annunci la partecipazione alle World Series of Boxing (WSB), il ‘campionato mondiale’ del pugilato. L’annuncio, entusiasta, viene del patron delle WSB, Karim Bouzidi, che ha ufficializzato l’impegno di Cuba a partecipare alla quarta edizione del torneo, prevista per il 15 novembre prossimo. Alberto Puig, presidente della federazione dell’Avana, conferma: partiranno I venti migliori pugili di Cuba. “Il nostro obiettivo principale è di preparare al meglio i nostri pugili, acquisire maggiori informazioni sui rivali in ogni categoria di peso per riuscire ad imporci nelle competizioni più importanti”, la precisazione di Puig.
La WSB non è professionismo in senso stretto, perché non rappresentano un vero è proprio circuito professionistico, resta che per la prima volta da cinquant’anni i pugili cubani potranno guadagnare dalla loro attività sportiva, oltre ai contributi che ricevono dallo stato: per ogni incontro tra i mille e i tremila dollari.
Tutto rientra nelle aperture che il governo cubano ha messo in pratica negli ultimi anni e questa mossa potrebbe rallentare la costante fuga di talenti e tecnici verso i paesi dove possono diventare ricchi. Nulla di male, certo. Solo che uno poi pensa a Teo, al secolo Teofilo Stevenson. Morto nel 2012, per un infarto.
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Stevenson ed Alì, ormai malato, si incontrano a Cuba
Il bello dello scrivere è che non puoi sentire uno che dice ‘chi era?’. Perché ti incazzi, magari, perché Teo assieme ad Alì è la boxe. Il più grande di sempre, per la sua parte, perché lo sport si nutre di sogni e antagonismi e una delle leggende della boxe è che non sapremo mai chi fra Stevenson ed Alì sia stato il più grande. Perchè Teofilo ha fatto tutto per la sua Cuba, senza mai passare professionista. Che ha fatto? Tre ori olimpici (Monaco ’72, Montreal ’76 e Mosca ’80), che sarebbero potuti essere quattro senza il boicottaggio di Cuba alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, tre ori mondiali (Avana ‘74, Belgrado ‘78, Reno ’86). Si è ritirato proprio nell’86, a 34 anni. Altra generazione rispetto ad Alì, certo, ma è come poter confrontare Pelè e Maradona. Generazioni diverse, ma se la sono giocata sullo stesso campo. Teo no, non ha mai combattuto per un titolo professionisti. Perché?
Lo ha detto in un’intervista, passata alla storia. All’incredulo giornalista ha risposto: “Cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all’amore di otto milioni di cubani?”. Meglio di un gancio destro al volto, più ficcante di una finta, più languido di un ko.
Questo era Teo, con un padre torturato dal regime prima della rivoluzione, con una pensione sociale che gli bastava, con centinaia di giovani cubani avviati alla boxe. Non è questione di romanticismo, è questione di idee e di scelte. Non c’è un meglio o un peggio, c’è una storia personale. Questa è quella di Teo e del suo no ai milioni degli sponsor.
MEDIATECA:
- da leggere Mal tiempo, edito da Keller, di David Fauquemberg
- da guardare il documentario Sons of Cuba, di Andrew Lang dedicato ai giovanissimi pugili dell’Havana Boxing Academy
- da ascoltare Benny ‘Kid’ Paret, di Gil Turner, dedicata al pugile cubano Bernardo Paret, morto sul ring nel 1962, dopo un combattiento contro Emile Griffith. Si trattò della prima in diretta tv, simbolo della ‘boxe business’ contro cui Teofilo Stevenson ha sempre combattuto