All’epoca della cronaca frenetica, dell’imperio di twitter, la riscoperta di un giornalismo di approfondimento, che tenta ancora di cogliere l’anima dei protagonisti, per capire meglio i gesti
di Christian Elia
In un articolo apparso sulla prestigiosa rivista Columbia Journalism Review, all’inizio del 2013, si commentavano i dati di una ricerca secondo cui sui quotidiani americani dal 2003 al 2012, gli articoli pubblicati con più di 2mila battute sono in netta diminuzione: sul Los Angeles Times il calo è stato dell’86 per cento. Sul Washington Post del 50 per cento.
Per capirci oggi Truman Capote, Norman Mailer e tanti altri non scriverebbero sui quotidiani. Per alcuni questo potrebbe essere la cerimonia funebre del giornalismo narrativo, ma potrebbe invece significare l’esatto opposto. Senza appellarsi al fatto che – come dimostra il grafico della stessa ricerca – il New York Times è la testata che tiene botta sul lungo formato ed è anche quella che vende di più. Nascondersi dietro questo dato, significherebbe non guardare la realtà.
Un contemporaneo frenetico, bulimico, cannibale. I supporti di lettura sono diventati elongazioni del corpo nello spazio: possiamo leggere (mail, sms, giochi, chat) anche 24 ore al giorno. Lo spazio per la lentezza è eroso ogni minuto che passa. Una stanchezza da lettere, inevitabile, si somma a una mancanza di tempo. Come se prima e giornate fossero più lunghe, come se all’improvviso ci avessero rubato i minuti che compongono le giornate. Nei consigli di amministrazione dei grandi gruppi editoriali si è corso ai ripari, stringando, digitalizzando. Oggi twitter, in 140 caratteri, detta la linea e fa cronaca. Accompagnata da news dei quotidiani che appaiono sul cellulare.
La domanda, però, è se tutto il pubblico che ama un’informazione differente, lenta, approfondita, sia svanito nel nulla. La risposta è no. Il primo dato lo offre il mercato degli ebook, che sono diventati proprio il rifugio dell’andare a fondo. Ma non solo. In Francia spopolano riviste come Feuilleton e XXI, in America Latina vive una stagione d’oro celebrate da due recenti antologie come Antología de crónica latinoamericana actual (Alfaguara) e Mejor que ficción. Crónicas ejemplares (Anagrama). Nei paesi di lingua inglese vince il web, con siti come Gothamist, Byliner e altri.
In Italia siamo indietro, tanto per cambiare. Ma la strada per una richiesta di odori, sapori, colori e di storie quella non manca. Bisogna solo andargli incontro. Resta da capire, però, cosa si intende per giornalismo narrativo, categoria troppo spesso bistrattata soprattutto da coloro che non la sanno navigare.
Dimenticate le idiozie sui fronzoli e l’abuso di aggettivi, la tracimazione dell’ego autorale e le velleità frustrate di mancati scrittori. Il giornalismo narrativo, o long form journalism, o ancora no fiction novel, fino al New Journalism è tutt’altro e ha regole precise. Codificate in un libro guida, pubblicato negli Usa nel 1973. Il titolo è proprio The New Journalism, l’autore è l’eccentrico Tom Wolfe. Le regole molto chiare:
- costruire la storia per scene successive, ricorrendo il meno possibile alla voce del cronista
- registrare tutti i dettagli anche quelli apparentemente insignificanti, i gesti, le abitudini, i modi, tutto ciò che può simbolicamente rappresentare i personaggi
- utilizzare dialoghi e conversazioni piuttosto che dati o cronaca pura per coinvolgere maggiormente il lettore
- presentare ogni scena dal punto di vista interiore di un personaggio, così da dare al lettore l’impressione vivere la situazione realmente.
Tutto qua, nessuna finzione, nessun idea personale. Il resto è altro, ma qui si parla di giornalismo. Puro, rabbioso, come tutte le passioni. Con la stessa dignità del data journalism, dell’infografica, del citizen journalism e tutti quelli che vi vengono in mente. Ma che ruotano attorno a due certezze: se non c’è la notizia non c’è giornalismo e – all’epoca di twitter e della crisi dei media – non limitarsi a dire che qualcosa è accaduto, ma tentare di capire perché.