Il racconto della battaglia per la difesa dell’acqua pubblica, il bilancio dei due anni trascorsi dal trionfo referendario e il punto sull’attuazione della volontà popolare
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/iopapà _brenta.jpg[/author_image] [author_info]di Francesca Caprini. Giornalista freelance. Con l’associazione Yaku, che ha contribuito a fondare, si occupa di cooperazione internazionale in America latina. Arriva in Bolivia nel 2005, poco dopo la guerra dell’acqua di Cochabamba e da allora l’acqua diventa il cardine di una ricerca che si dipana fra attivismo, militanza, collaborazione al fianco dei popoli indigeni, lotte locali. Insieme al suo collettivo, ha scritto “La Bolivia che ha cambiato il mondo ” [ed. carta] e “La visione dell’acqua – viaggio fra la cosmogonia andina e l’Italia dei beni comuni” [ed. Nova Delphi]. Fa parte del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, con il quale ha seguito e costruito la battaglia referendaria Acqua Bene Comune. Vive fra Trento e Roma e, ultimamente, frequenti viaggi in Colombia. www.yaku.eu[/author_info] [/author]
Cominciamo dalla fine. 12 giugno 2013, secondo compleanno del Referendum Acqua Bene Comune. Il giurista Stefano Rodotà, alla piazza di San Cosimato a Roma, gremita di gente e bandiere blu: “Il referendum sull’acqua è una battaglia giuridica difficilissima, uno dei fatti più rilevanti e meno presi in considerazione dell’ultima fase politica. La politica ufficiale ha perso davvero una grande occasione per mettersi in sintonia con la società. Ventisette milioni di persone non sono una minoranza”.
Eppure. Quando il 12 e 13 giugno del 2011 con uno dei risultati referendari numericamente più significativi della storia repubblicana italiana – il 56,8% degli aventi diritto – abbiamo vinto la battaglia contro la privatizzazione coatta delle risorse idriche italiane, reti, organizzazioni e movimenti per l’acqua di mezzo mondo hanno plaudito al risultato storico. L’Uruguay nel 2004 aveva per primo inserito l’acqua come diritto umano nella Costituzione statale con uno straordinario plebiscito popolare. Attraverso le liste della FFOSE, la federazione sindacale dei lavoratori del servizio idrico, faceva arrivare commenti emozionati: “Avete preso il nostro testimone dall’altra parte del mondo. L’acqua è una, difendiamola insieme”; la Bolivia, teatro della prima guerra dell’acqua nel 2000, ripeteva lo slogan di Cochabamba:” L’acqua è di tutti e di nessuno”; la Colombia nel 2009 aveva tentato lo stesso tipo di battaglia, un referendum popolare sostenuto da una impressionante raccolta firme che per per due anni aveva battuto palmo a palmo il Paese. L’allora Governo Uribe vide bene di affossare il tutto con un colpo di mano in parlamento.
DUE ANNI DI LOTTA IN UN VIDEO DI ACQUA BENE COMUNE
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Quel 13 giugno 2011 l’organizzazione che aveva traghettato la raccolte firme colombiana, Ecofondo, scriveva:”Almeno voi ce l’avete fatta, non molleremo nemmeno noi”. Ma anche dalla Turchia che nel 2009 aveva ospitato il quinto Forum Mondiale dell’Acqua, ed il relativo controforum; e poi Parigi e Berlino, che in Europa stavano ripubblicizzando il sistema idrico della città dopo un quarto di secolo di privatizzazioni, ed i risultati erano già sotto gli occhi di tutti: risparmi d’acqua e di bolletta, popolazioni partecipi. Insomma, il referendum dell’acqua rappresentava una svolta nelle battaglie per la difesa dei beni comuni che andava ben oltre i confini italiani.
Eppure. I due quesiti referendari – il primo sulla modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il secondo sulla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito – avevano fermato la privatizzazione del servizio idrico italiano messa in atto dal Governo Berlusconi, che obbligava la messa sul mercato obbligatoria di quote – almeno il 40% – ed arginava il profitto sull’acqua eliminando il cosiddetto full recovery cost: quell’articolo del testo unico dell’Ambiente, il 152/2006, che prevedeva un “tasso di remunerazione del capitale investito”, un minimo del 7% della nostra bolletta che automaticamente, fin dalla legge Galli del ’94, copriva gli investimenti sulla rete attraverso un tasso di remunerazione del capitale investito.
Due norme che di fatto rendevano il panorama italiano del settore idrico un unicum: la privatizzazione dell’acqua è uno degli affari più remunerativi del globo, ed avanza a passi da gigante. Ma una privatizzazione dell’acqua “per legge” non si era ancora vista. Abrogati gli articoli incriminati, se da una parte si aprivano dei vulnus legislativi per l’affidamento del servizio idrico, dall’altra iniziava la battaglia vera, quella per la ripubblicizzazione: un panorama politico nuovo, dove i valori di autonomia e democrazia partecipativa insiti nella battaglia referendaria e portati avanti dai tanti comitati territoriali “Due sì per l’acqua bene comune” dovevano finalmente essere messi in pratica.
La partecipazione: dalle chiese ai centri sociali.
Naturalmente non si trattava solo di una questione normativa. Il Referendum Acqua Bene Comune portava una ventata di aria fresca nell’orizzonte politico italiano: si comincia a ragionare attorno ai beni comuni come dimensione del reale, un’alternativa concreta e praticabile oltre il mercato che pretende un sistema dove servizi essenziali e beni naturali siano salvaguardati oltre la finanziarizzazione selvaggia. “L’acqua paradigma dei beni comuni” era lo slogan. Accanto a “Si scrive acqua, si legge democrazia”.
“Questo modello finanziario, per poter sopravvivere, deve mettere sul mercato l’intera vita dei cittadini, fino al punto da non poter rispettare nemmeno la democrazia formale”, spiegava Marco Bersani di Attac Italia, sotto campagna referendaria. E parte dei cittadini italiani dimostravano di credere in questo, e di volere fortemente un cambiamento.
Dalla Legge di Iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua, nel 2007, sostenuta da oltre 400.000 firme; alla raccolta delle firme a sostegno del referendum, più di un milione e mezzo, il triplo di quello che era necessario per poter presentare i quesiti alla Corte di Cassazione; fino al dilagante risultato del referendum stesso, 27 milioni di persone che all’inizio dell’estate sono andate a votare per dire no all’acqua come merce: ogni passo – organizzato, partecipato, dal basso – del percorso simbolicissimo della difesa dell’acqua, si portava dietro una partecipazione popolare mai vista e trasversale: “Dalle chiese ai centri sociali”, si diceva.
Si apriva di fatto una stagione all’insegna della costruzione di nuovi spazi sociali creativi, un vero laboratorio di un altro mondo possibile che in ogni territorio trovava la sua declinazione. La penetrazione sociale dell’acqua è formidabile e si connette ad altre battaglie territoriali. Se a Roma la battaglia per la difesa dell’acqua diventava l’organizzazione di comitati di quartiere ed esperienze come “RiPubblica”, che si intersecava con l’ondata di riappropriazione di spazi cittadini svenduti o in disuso, in Calabria l’acqua pubblica era insieme al no alle centrali al carbone o al Ponte sullo stretto. Mentre in Trentino diventava difesa delle montagne, “madri delle acque”: l’acqua, faceva muovere corde profonde, perfino ancestrali. Diceva Berito Cubaria sciamano del popolo indigeno colombiano U’wa, il cui territorio sacro vive sotto la minaccia di esproprio dalle grandi majors del petrolio e del gas: “I corsi d’ acqua sono i discorsi che dalle montagne vanno al mare. Il mundo blanco, i ghiacciai, sono il cervello della nostra madre terra. Se interrompiamo questi discorsi, o gli inquiniamo, o li vendiamo, è come se vendessimo nostra madre. O la condannassimo a morire, lentamente in una atroce agonia”. Berito diceva queste parole ai piedi del ghiacciaio della Marmolada, sulle Dolomiti. Facendo rinascere in chi lo ascoltava, un senso di appartenenza al territorio forse dimenticato. Gli faceva eco il prete italiano dell’acqua, il comboniano Alex Zanotelli: “Vendereste vostra madre?”, e tuonava contro quelle istituzioni ecclesiastiche conniventi con il lucro sulle risorse idriche, illustrando i dati allarmanti del miliardo e mezzo di assetati nel mondo, inesorabilmente in aumento.
Insomma, la battaglia per l’acqua bene comune si dimostrava sempre più una rivoluzione culturale che sparigliava le carte delle politiche neoliberiste sposate dall’Europa e dal nostro Paese. Andando anche a lavorare su nessi sociali sensibili: l’acqua bene comune diventa emblema di un superamento della dicotomia pubblico-privato, sperimentazione di nuove forme di gestione partecipata. Punta ai nodi del sistema capitalistico – lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, la crisi strutturale del modello neoliberista – e diventa un pensiero – matrice da applicare ad altri ambiti: istruzione,sanità, territorio, trasporto, e via dicendo.
Eppure. A due anni dalla sua approvazione, il referendum Acqua Bene Comune rimane in gran parte dei territori lettera morta.
“Il Mio voto va rispettato”
Il Forum dei Movimenti per l’Acqua, la piattaforma che porta avanti la ripubblicizzazione dell’acqua in Italia, è diventato con la campagna referendaria un soggetto politico. Che ha messo in crisi partiti e toccato gli interessi dei poteri forti, andando a cozzare contro l’idea cardine dell’economia dell’Unione Europea, la creazione di uno spazio monetario dove i dogmi liberisti potessero essere centrali in un sistema di concorrenza.
A due mesi esatti dal13 giugno 2011, arriva il “Il decreto di ferragosto” il cui art. 4 cita “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea”. Viene così sostanzialmente riproposta la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica contenuta nell’art. 23-bis abrogata con i referendum del 12-13 giugno 2011. Partono i ricorsi in i fronte alla Corte costituzionale chiedendo di definirne l’illegittimità costituzionale.
Poco dopo è il Patto di Stabilità del Governo Monti a prendere di mira gli enti locali con il famigerato articolo 4, tentando di farci rientrare anche le Spa In House e le aziende speciali – queste ultime indicate dai movimenti per l’acqua come soluzione ottimale per la gestione del Servizio Idrico ripubblicizzato. Riprendono vita, dopo due anni di contestazioni puntuali, antichi ritornelli, come ad esempio quello che “siccome il servizio idrico ha necessità di molti investimenti, questi li può garantire solo l’ingresso del privato”. Si vogliono di nuovo favorire i processi di privatizzazione. Si vuole negare il referendum Acqua Bene Comune.
Il secondo quesito referendario viene riproposto sotto mentite spoglie invece con l’articolo 21 cosiddetto “Salva Italia”, che trasferisce all’Autorità per l’Energia e il Gas “le funzioni di regolazione e di controllo dei servizi idrici” , cioè quelle di perseguire “la finalità di garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza (…) nonché adeguati livelli di qualità nei servizi (…) assicurandone la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela di utenti e consumatori.” .
Il Forum dei Movimenti per l’Acqua avverte: “La conseguenza più diretta dell’applicazione del Metodo Tariffario Transitorio elaborato dall’AEEG sulle tariffe del servizio idrico sarà un aumento molto rilevante che in media ammonterà ad un 13-14%. I primi risultati relativi all’impatto del nuovo metodo sono stati raccolti in uno studio dell’ANEA (Associazione Nazionale Autorità e Enti di Ambito): gli aumenti tariffari medi, su un campione che riguarda 61 gestori, sono del 13,7%, con valori fra il 22 e il 46,8% per una decina di gestori, mentre solo 17 gestori, resta sotto la soglia del 6,5% di aumento prevista dal vecchio metodo tariffario normalizzato”.
A fronte di tali dati e nonostante sia tuttora vigente il principio del “full cost recovery” per cui la tariffa dovrebbe coprire integralmente i costi del servizio, Federutility continua a richiedere al Governo di trovare una modalità di finanziamento degli investimenti necessari (circa 2 mld di €/anno) indicando come soluzioni preferibili le tasse e finanziamenti pubblici.Il Consiglio di Stato però risponde, dando ancora una volta ragione ai comitati per l’acqua pubblica: nonostante la suddetta delibera dell’Autorità adesso i gestori non hanno più alibi per continuare a tenersi il maltolto del 7%. Insomma, subito dopo la vittoria referendaria, parte la vera battaglia: cercare di far applicare il volere dei cittadini.
Parte così La Campagna di “obbedienza civile”.
Una idea rivoluzionaria: il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua a partire dall’autunno del 2011 decide per un’autoriduzione delle bollette successive al 21 luglio 2011, applicando una riduzione pari alla componente della “remunerazione del capitale investito”.
La campagna viene battezzata di “obbedienza civile” perché non si tratta di “disubbidire” ad una legge ingiusta, ma di “obbedire” alle leggi in vigore, così come modificate dagli esiti referendari. “Oggi, a distanza di due anni i gestori del servizio idrico italiano ignorano l’esito referendario. Per questo abbiamo chiesto alle cittadine e ai cittadini italiani utenti del servizio idrico di aderire a questa campagna – continuano i comitati referendari – Ci siamo proposti anche di dare una risposta all’evidente crisi della democrazia rappresentativa, ormai diventata impermeabile non solo alle istanze della società, ma persino ai formali esiti delle consultazioni codificate nella nostra Carta Costituzionale, come appunto i referendum abrogativi”.
Oltre all’adesione di migliaia di cittadini che continuamente si autoriducono le bollette, iniziano da Nord a Sud le azioni legali promosse dai comitati territoriali e dai singoli utenti per richiedere che la quota relativa alla remunerazione del capitale investito venga espunta definitivamente dalla tariffa: ricorsi ai giudice di pace, al TAR si ricorre in Toscana ed Emilia Romagna. E si interagisce con gli enti locali italiani perchè prendono posizione contro la nuova tariffa dell’AEEG per il servizio idrico.
Le proposte concrete ci sono e nascono dai vari gruppi di lavoro che si formano dentro il Forum dei Movimenti per l’Acqua: al posto del “full cost recovery” occorre costruire un nuovo meccanismo tariffario e ricorrere sia alla finanza pubblica che alla fiscalità generale. Più in particolare, si prevede che la tariffa copra i costi di gestione, gli ammortamenti per la parte degli investimenti finanziati con la finanza pubblica più il costo degli interessi del capitale, insieme ad un’articolazione della tariffa sulla base delle fasce di consumo, mentre la fiscalità generale è chiamata ad intervenire per coprire il costo del quantitativo minimo vitale (50 lt/abitante/giorno) e un’altra parte di investimenti. Per quanto riguarda la suddivisione degli investimenti, la fiscalità generale copre quelli relativi alle nuove opere (circa 23, 2 mld in 20 anni), mentre la finanza pubblica interviene per garantire gli altri circa 16,8 mld. di investimenti relativi alla ristrutturazione delle reti.
Lo strumentazione di finanza pubblica individuata è in particolare riferita all’intervento della Cassa depositi. Parte quindi anche una campagna perchè la stessa Cassa Depositi e Prestiti ritorni alle sue funzioni originarie invertendo il trend di privatizzazioni che ne ha snaturato la funzione di “banca pubblica”. La porta avanti il neonato Forum per una finanza pubblica e partecipata.
Acqua Bene Comune di Napoli: il primo successo.
L’hanno chiamata la Parigi d’Italia: la società a totale capitale pubblico (ARIN S.p.A.) viene quasi subito trasformata in azienda speciale con il simbolico nome “Acqua Bene Comune Napol”. Alberto Lucarelli, giurista ed uno degli estensori dei quesiti referendari, diventa il primo assessore ai beni comuni in giunta De Magistris.
Nonostante le difficoltà, sono numerosi i processi che stanno attraversando la penisola, con l’unico obiettivo di praticare concretamente la trasformazione sancita dal voto della maggioranza assoluta dei cittadini italiani. E’ cosi che, mentre nella provincia di Imperia insieme ai “Sindaci per l’Acqua” viene bloccata la proposta di privatizzazione e si intraprende un percorso per una gestione pubblica da studiare assieme ai comitati, venti sindaci “ribelli” della provincia di Varese si schierano per l’azienda speciale e in provincia di Brescia si inizia un analogo processo. E’ così che il progetto di una grande multiutility del nord (A2A, Iren, Hera) viene smontata pezzo per pezzo e, mentre tra Forlì e Rimini si ragiona in direzione di uno scorporo di “Romagna Acque” dalla multi utility Hera, a Reggio Emilia e Piacenza si apre la medesima strada per aprire alla ripubblicizzazione del servizio idrico. Analogo percorso viene avviato a Pistoia e a Pescara, mentre a Vicenza il cambiamento dello statuto comunale inserisce nella “carta costituzionale” cittadina la gestione del servizio idrico attraverso enti di diritto pubblico. I comitati acqua bene comune del Trentino si trovano di fronte addirittura la volontà del sindaco di Trento di far pagare ai cittadini l’acquedotto per 37 milioni di euro, ceduto al tempo ai privati:riescono a far stralciare la gestione dell’acqua dalla delibera che prevedeva la costituzione di Una Spa In House per servizio idrico e rifiuti e si preparano con una controdelibera per chiedere l’azienda speciale. A tutto ciò va aggiunta la proposta di ripubblicizzazione del ramo idrico di Acea e le proposte di legge regionale d’iniziativa popolare in Lazio, Sicilia e Calabria, oltre a quella depositata in Abruzzo.
Dopo due anni di costanti attacchi all’esito del voto referendario, sia sul versante della gestione sia sul versante della tariffa, chiunque si confronti con la battaglia per la riappropriazione sociale dell’acqua e per una gestione pubblica, partecipativa e senza profitti del servizio idrico integrato potrebbe immaginarla come totalmente immersa in una fase difensiva. La realtà pare essere altra: se la persistenza del movimento dell’acqua e delle ragioni profonde che hanno portato alla vittoria refendaria del 2011 ha permesso una forte resistenza ai tentativi di governi e poteri forti di riconsegnare l’acqua al mercato, la penetrazione carsica dentro i territori sta producendo importanti e promettenti risultati verso la ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Il Forum dei Movimenti per l’Acqua, in costante connessione con i movimenti europei e le reti mondiali, è stato protagonista dell’ultimo Forum Alternativo Mondiale dell’Acqua, a Marsiglia, nel marzo 2012. Il cammino tracciato in Italia ora viene riproposto a livello europeo attraverso un ICE (Iniziativa Cittadini Europei) per chiedere alla Commissione europea di proporre una normativa che sancisca il diritto umano universale all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari, come riconosciuto dalle Nazioni Unite, e promuova l’erogazione di servizi idrici e igienico-sanitari in quanto servizi pubblici fondamentali per tutti. E a settembre, insieme ad altre associazioni, ci sarà una Carovana in Colombia a sostegno delle popolazioni minacciate dalla costruzione di una grande diga nella regione del Huila, e in appoggio agli acquedotti comunitari.
“Ancora qualche mese fa espressioni come “beni comuni”, “bene comune”, non erano entrate nel discorso pubblico, facevano parte del patrimonio culturale e politico di minoranze, sia pure “intense” e particolarmente motivate – spiega ancora Stefano Rodotà in una sua prefazione – Oggi l’uso di quelle espressioni dilaga, quasi con un effetto inflazionistico, che lascia intravvedere un rischio: se troppe realtà vengono etichettate come bene comune, la forza dirompente di questo riferimento può appannarsi; se tutto è bene comune, si perde la sua attitudine a individuare le specialità forti di specifiche categorie di beni. E tuttavia è buona cosa che avvenga, perché in questo modo si accreditano un nuovo riferimento, un nuovo paradigma, che consente di dare un’interpretazione della società e delle sue dinamiche liberata dagli schemi angusti e costrittivi che ancora continuano ad essere adoperati. Ai luoghi più diversi del mondo si estende il contagio di quella che Franco Cassano ha chiamato “ragionevole follia dei beni comuni”.