Pallonetto al destino

Stefano Borgonovo, ex attaccante di Fiorentina e Milan, è morto oggi di Sla, dopo una lunga lotta contro la malattia. Un omaggio a lui e a una serata indimenticabile

di Christian Elia

Punizione per il Milan. Rijkaard, poco dopo la metà campo. Alza la testa decorata di treccine, come certe statue elleniche, non ‘legge’ la battuta lunga, l’appoggia piano ad Evani, uno-due con Van Basten, la difesa del Bayern spazza via.

Fermiamo il tempo, lasciando quella palla che disegna la sua traiettoria nel cielo. Perché sarebbe bello, ogni tanto, poterlo fare. Il cronometro segna 100’14’, i supplementari stanno finendo. Olimpyastadion di Monaco di Baviera, semifinale di ritorno tra i bavaresi e il Milan di Sacchi. Chi vince va a Vienna a giocarsi la finale. I rossoneri detengono il titolo, stravinto l’anno prima contro la Steaua Bucarest. Giocano, forse, il bel calcio del mondo. Ma il Bayern è un osso duro. I ragazzi di Sacchi hanno vinto, all’andata, 1-0. Rete di Van Basten su rigore.

[sz-youtube url=”http://www.youtube.com/watch?v=R9ln36wTjd8″ /]

 

Quello è il Milan degli olandesi, VanBastenGullitRijkaard, da leggere tutto d’un fiato, il Milan di Sacchi, genio visionario per il suo tempo, della difesa invincibile, da leggere rigorosamente da destra a sinistra: Tassotti – Galli – Baresi – Maldini. Una corazzata, ma quel Bayern è tosto. Il colosso Aughentaler, che avrebbe picchiato pure Dio se gli toccava di marcarlo, il folletto Thon, brasiliano nato in Germania per sbaglio, lo stantuffo Strunz, che a furia di solcare la fascia ti faceva passare la voglia di fare lo spiritoso sul suo cognome.

La partita si mette male. Il pubblico spinge, il Bayern segna. Al 58’ segna Strunz, si va ai supplementari. Il Milan gioca, spinge, perché non è nato per difendersi. Il Bayern lo punisce al 108’, con McInally, uno scozzese ruvido, che in area di rigore ti pianta un gomito nel petto, uno di quei centravanti che mena come uno stopper. Mancano sette minuti alla fine, si mette male. E arriva il minuto 100’15’’.

La palla l’abbiamo bloccata in volo. Finisce dalle parti di McInally, ma Maldini lo anticipa, ributtando in avanti, alla disperata. La difesa del Bayern si fa trovare sbilanciata. Forse ossessionata di marcare i campioni del Milan, si dimentica di Borgonovo.

Stefano Borgonovo, classe ’64. Prima punta atipica, una sorta di padre spirituale di Inzaghi. In un’epoca di centravanti ancora grossi e forti, lui sembra la versione comasca di Van Basten, cigno raffinato, poeta del goal. Il Milan lo ha comprato e lo ha mandato a farsi le ossa in provincia. Viene da una stagione eccellente con la Fiorentina. Ma in quel Milan trovare posto è dura. Sacchi, nato per vincere, lo manda in campo nel secondo tempo. Presi dai fenomeni, i tedeschi non marcano Stefano, sul filo del fuorigioco, quel limbo tra sogno e realtà, dove a volte un fischio dell’arbitro ti risveglia bruscamente. Non fischia, stavolta. Borgonovo fa rimbalzare quel pallone, per un secondo, mentre il portiere Aumann (eterno secondo che viveva la sua serata da protagonista) gli esce incontro. Il tocco è delicato, come il suo fisico, come il suo sorriso gentile. Un pallonetto preciso, lento. E’ la rete che porta il Milan alla sua seconda finale, apre a a quel Milan le porte della storia.

Ieri, 27 giugno 2013, Stefano Borgonovo è morto. Appesi gli scarpini al chiodo, si era messo ad allenare, smettendo nel 2007 per motivi di salute. La diagnosi terribile, come un triplice fischio finale: Sclerosi laterale amiotrofica. Ha lottato come un leone, Stefano, come faceva in mezzo ai colossi delle difese con il suo fisico longilineo e sottile. Con la sua Fondazione Stefano Borgonovo Onlus si è battuto per la ricerca sulla malattia (che chiamava la ‘stronza’), per sensibilizzare, per raccogliere fondi. Si è offerto, indifeso, nella sua nuova vita, su una carrozzina speciale. Senza nascondersi.

Ma qui, oggi, voglio ricordarlo mentre corre pazzo di gioia verso la panchina, tra i suoi compagni. Voglio farlo così perché lui stesso diceva, già malato: Io, se potessi, scenderei in campo adesso, su un prato o all’oratorio. Perché io amo il calcio”. Voglio ricordarlo così, perché sarebbe bello – ogni tanto – fermare il tempo. Dove Gullit è giovane e con le treccine, non bolso e con i capelli corti, mentre piange disperato, alla serata che i suoi vecchi compagni hanno organizzato per raccogliere fondi per la Fondazione di Stefano. Perché è bello immaginare quando non pensavi che la vita finisce, che ci si ammala. E’ bello sognare un mondo dove gli amici non muoiono. Rendendo quella parabola, la traiettoria di quell’ astuto pallonetto, eterna.



Lascia un commento