Egitto, a un passo dal baratro

Sedici morti, milioni di firme e di persone in piazza contro il presidente Morsi, l’esercito pronto a intervenire come in passato, ma il contesto è molto differente dal 2011

di Christian Elia

Mohammed Morsi, presidente egiziano, non si farà da parte. Lo ha confermato ieri sera, in diretta televisiva, mentre nel Paese infuriavano gli scontri tra i dimostranti e le forze di sicurezza, che costavano la vita a sedici persone (e oltre 200 feriti) secondo fonti dell’opposizione.

Il quadro, a prima vista, sembra quello di due anni e mezzo fa. Il presidente Mubarak asserragliato nei palazzi del potere, il popolo fuori ad assediarlo, l’esercito ago della bilancia che prima non interviene e poi molla Mubarak al suo destino schierandosi con i rivoltosi. Anche oggi, da quello che trapela dalle alte sfere militari, l’esercito è pronto a rovesciare Morsi.

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Non bisogna, però, farsi trarre in inganno da una sceneggiatura simile nella forma, ma molto differente nella sostanza. Morsi non ha ereditato il potere d’ufficio, come successe a Mubarak nel 1981, dopo l’attentato che costò la vita a Sadat, ma è stato eletto da una larga maggioranza di cittadini. Ed è una bella differenza. Morsi non è un satrapo isolato nel suo palazzo, perché la maggioranza della popolazione egiziana, quella delle campagne, è legata a lui e ai Fratelli musulmani che Morsi rappresenta. Questo non è un elemento di poco conto, perché la maggioranza degli egiziani non vivrebbe come una liberazione il suo rovesciamento.

Morsi ha commesso degli errori, notevoli. L’idea di governare da soli, a colpi di modifiche costituzionali, insensibile al confronto con l’anima urbana, borghese, colta e spesso laica delle città è stata una pessima idea. La soluzione migliore per tutti, considerato lo spessore delle opposizioni (capaci di raccogliere 23 milioni di firme per le sue dimissioni) andrebbe rispettato, con un ritorno alle urne e magari un nuovo candidato presidente. Però non si può accusare Morsi di essere uguale a Mubarak.

Chi scrive ha avuto la fortuna professionale di trovarsi a piazza Tharir quando Mubarak è stato rovesciato, ma quell’onda era davvero rappresentativa della società egiziana: nella stessa piazza ti trovavi attorno i ferventi religiosi e secolaristi, i laici e gli ultras delle squadre di calcio, cristiani e musulmani, uomini e donne. Fuori dalla piazza i mercenari (spesso liberati dalle prigioni) prezzolati da Mubarak per pestare i rivoltosi. La situazione, oggi, è differente. Perché se è vero che dopo cinquanta anni di dittatura legata ai militari, finalmente, gli egiziani hanno rotto il tabù del potere, non si può neanche immaginare che siano sempre la piazza, i morti, l’esercito a determinare chi governerà il Paese. Non si deve neanche credere che tutta la parte della società vicina ai Fratelli musulmani accetti di buon grado un rovesciamento del presidente Morsi senza battere ciglio.

Passata la maturità, insomma, agli egiziani è chiesto di laurearsi. Morsi potrebbe farsi da parte, sarebbe una buona idea per il bene del Paese, ma solo per nuove elezioni, non certo per una nuova giunta militare che, come quella di Tantawi dopo la caduta di Mubarak, potrebbe non lasciare il potere in pochi mesi. Deve evolversi il modo di fare opposizione, dunque, ma anche quello di governare e non si può pensare di sparare sulla folla. L’Egitto, insomma, vive ore drammatiche: perché non si decide solo il presente, ma anche il futuro e la capacità di un grande popolo (sull’orlo della bancarotta dopo anni di instabilità) di vivere una normalità democratica che include l’altro e non immagina di risolvere i conflitti in modo violento.



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