La fugace parabola di Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani al potere si è conclusa in 374 giorni. Questo l’arco temporale nel quale il movimento nato nel 1928, dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano, è riuscito a governare legittimamente l’Egitto, dopo essere stato clandestino e perseguitato per anni.
[author] [author_image timthumb=’on’]https://fbcdn-sphotos-e-a.akamaihd.net/hphotos-ak-prn1/30586_117755678246365_6400426_n.jpg[/author_image] [author_info]Alfredo Somoza è presidente di Icei, direttore di dialoghi.info e collaboratore per Esteri, Radio popolare. www.alfredosomoza.com[/author_info] [/author]
Clandestino e perseguitato ma non inattivo: nei decenni precedenti la cosiddetta “primavera araba”, infatti, i seguaci della “fratellanza” hanno saputo costruire una rete capillare di assistenza e sono riusciti a influenzare fortemente la cultura e la religione in Egitto. Per questo sono stati loro i primi a beneficiare della caduta di Hosni Mubarak. Alle elezioni del 2012, infatti, i Fratelli Musulmani sono riusciti a sconfiggere Ahmed Shafik, l’erede predestinato del presidente deposto; hanno così coronato anni e anni di lotta finalizzata a rovesciare il regime “laicista”, contrario ai loro principi basati sulla coincidenza tra Stato e religione. Una visione “integralista” della società in cui non c’è spazio per la pluralità, e nella quale le posizioni diverse dalle proprie sono rigettate. La Fratellanza è dunque una forza “eversiva” che ha raggiunto il potere democraticamente, senza mai aver aggiornato la sua visione del mondo e il suo programma.
Il successo che i Fratelli Musulmani hanno ottenuto è la dimostrazione di come molti movimenti integralisti siano veramente radicati nella società perché sono in grado di creare coesione sociale. Questo vale sia per quei movimenti che possono prendere una piega politica, come in Medio Oriente, sia per quelli che rimangono confinati nell’ambito religioso, come le sette cristiane nel continente americano. Si tratta cioè di realtà capaci di sostituirsi a uno Stato latitante o inefficiente, e di fornire servizi di tipo mutualistico (sanità, scuola, pensioni) in cambio di consenso. Rimanendo in Medio Oriente, non è molto diversa la storia di Hamas in Palestina, non a caso emanazione locale dei Fratelli Musulmani egiziani. Ora che al Cairo questa esperienza è stata chiusa d’ufficio dai militari – gli stessi che hanno sostenuto il regime di Mubarak e che ora diventano “interpreti” del clamore della piazza – i dubbi e le incognite sul futuro della democrazia nell’area si moltiplicano.
Non è certo la prima volta che un colpo di Stato viene “celebrato” in Occidente perché commesso ai danni di una forza politica che viene considerata “ostile”, pur avendo una legittimità democratica derivata dal voto. Una storia già vista in Algeria, dove il FIS vinse il primo turno delle politiche del 1991 poi annullate dai militari, trascinando il Paese in un conflitto costato oltre 150.000 vittime. La situazione egiziana è molto più complessa, soprattutto per la visibilità di un movimento di piazza sotto i riflettori mediatici 24 ore al giorno, ma minoritario al momento del voto. Il “popolo” di piazza Tahrir comprende diverse anime: dai sinceri democratici a gruppi di infiltrati dell’esercito e dei Fratelli Musulmani a tifoserie calcistiche violente e gruppi di sbandati. Gli stupri sistematici ai danni di donne che manifestavano in piazza rendono l’idea di quali spezzoni di società si nascondano tra le pieghe dei manifestanti.
[blockquote align=”left”]in democrazia le crisi si risolvono nei luoghi della democrazia, non in piazza. E men che meno chiedendo aiuto agli eserciti. Un presidente può essere sfiduciato, messo sotto impeachment, boicottato. Si possono raccogliere firme per indire referendum o plebisciti, si possono sottoscrivere petizioni, si può fare resistenza pacifica alle misure che non si condividono[/blockquote]Ma il punto è un altro. Ed è la constatazione della fatica fatta dai popoli che non hanno mai conosciuto la democrazia a rispettarne i principi basilari. In Egitto, uno di questi principi è venuto meno a furor di popolo: in democrazia le crisi si risolvono nei luoghi della democrazia, non in piazza. E men che meno chiedendo aiuto agli eserciti. Un presidente può essere sfiduciato, messo sotto impeachment, boicottato. Si possono raccogliere firme per indire referendum o plebisciti, si possono sottoscrivere petizioni, si può fare resistenza pacifica alle misure che non si condividono. Tutte modalità lecite e, anzi, fondamentali per l’affermazione dei principi democratici. E, in democrazia, una forza considerata eversiva non può essere ammessa a libere elezioni. È la storia, molto discutibile, dei divieti applicati ai gruppi politici collegati all’ETA nei Paesi Baschi.
Senza potere essere accusato di simpatie verso i Fratelli Musulmani, ritengo che sia stato consumato un colpo di Stato “a sfondo popolare”, e purtroppo non è una novità. I militari che hanno “salvato” la democrazia rimarranno custodi e controllori di qualsiasi evoluzione politica futura, come in Turchia con l’esercito post-Atatürk. Non è chiaro in queste ore – nessun giornalista si è spinto oltre il perimetro della piazza – quale sia il sentimento degli egiziani che non sono scesi a manifestare o che non vivono al Cairo. Quel 51% della popolazione che un anno fa mandava al governo Morsi con il primo voto libero nella storia del Paese. Chi oggi canta vittoria, rischia di doversi pentirsi a breve.
CORA
Condivido l’analisi. Vorrei però capire meglio cosa ha veramente portato così tante persone – si parla di milioni – in piazza: la crisi economica, la consapevolezza dopo la rivoluzione di due anni fa di poter far saltare il potere assediandolo a Tahrir? E soprattutto, cosa succederà adesso? Immagino che verrà insediato un governo tecnocratico con la protezione dell’esercito, qualcosa che non somiglia neanche vagamente alla democrazia. Che risposta darà la piazza?