Pane quotidiano

Una struttura storica, a Milano, racconta l’Italia che cambia, che soffre. Un posto dove nessuno ti chiederà chi sei, ma dove ci sarà da mangiare e da vestirsi per chiunque chieda un aiuto

di Antonio Marafioti 
video di Marco Todarello

La fila è ordinata e poco prima dell’apertura dei cancelli si separano le pesche buone da quelle marce. L’arancione rossastro di quelle commestibili spicca nel grigio della muffa che si ramifica con una rapidità tale da far pensare che non si arriverà a salvare il salvabile entro mezzogiorno. Sono le 9 di una mattina di giugno a Milano e a Pane Quotidiano si lavora già da due ore per dispensare il meglio, o forse il meno peggio, della frutta arrivata dal Verziere, l’ortomercato di via Cesare Lombroso. «Ce la danno che è già andata a male, ma qualcosa si riesce a salvare sempre. Diciamo due pezzi buoni su dieci da buttare». Angelo è uno dei volontari che ogni giorno si ritrovano qui. Macina, in bicicletta, quattrocento chilometri a settimana. Dice, esagerando, di averli contati. Cologno, Sesto, Milano e ritorno è il suo tragitto.

«Eccoli lì, poco fa ce n’era una decina, ora sono aumentati, vedi come si accalcano per entrare. Tra un po’ inizieranno a spingersi». Alle nove e un minuto Franco toglie il lucchetto all’inferriata e una folla sciama dentro in maniera non così disordinata come ci si aspettava.

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Colpisce la presenza degli anziani. Tantissimi. Italiani per lo più. Tra loro c’è un ragazzo rasato, forse rumeno, con il braccio destro completamente tatuato. Dalla fattura e dalla grandezza si deduce che quel disegno non potrà essere costato meno di 400 euro. Dietro di lui c’è una mamma maghrebina; con una mano spinge un passeggino, con l’altra tiene altri due figli. Sono biondi e molto belli e non si fa in tempo a riflettere su come sia possibile che da quella donna siano nati due bambini dai tratti somatici diversi, che ecco spuntare altri personaggi, altre riflessioni. Ci sono due gemelli, si narra che abbiano cinquant’anni, ma a vederli sembrano molto più vecchi. Hanno lunghi capelli color cenere che spuntano da un berretto blu di Italia ’90. Sono seguiti da un signore sulla sessantina con un fazzoletto da scout al collo. Un nostalgico. E poi c’è il melting pot.

Bianchi come il latte. Rossi come il rame. Neri che si fa fatica a vederli in volto in controluce. Cinesi, indiani, sudamericani di ogni Paese, afghani, marocchini, senegalesi, ucraini. A ben guardare in quella folla si possono scorgere i rappresentanti di almeno tre continenti. Portano le magliette e i cappellini con le scritte più disparate. I love questo, I love quello, dove per questo e quello s’intendono New York, Rimini, la mamma, l’Inter, il Mc Donald’s e altre cose decisamente meno eleganti. Arriva un vecchio in bicicletta che a stento riesce a portare il peso del suo corpo. Ha un paio di bermuda tirati ben oltre la vita, calzini grigi e un paio di scarpe consunte. Che sia italiano, e che sia milanese, lo si potrebbe intuire in una frazione di secondo. Più difficile da individuare è invece l’origine della donna che gli cede il passo sull’uscio. Avrà sessantacinque anni al massimo e sembra aver lasciato alle spalle una giovinezza degna di un romanzo di John Fante, o forse di un film di Almodovar. È mora con un robusto chignon in testa e le sopracciglia disegnate alla bell’e meglio con una matita nera e spuntata. Si muove lenta, claudicando, ma con una femminilità che lascia pochi dubbi all’idea che quel corpo appesantito e invecchiato possa averle dato da mangiare quando i tempi erano migliori.

Dal bancone delle pesche la visuale è quasi perfetta. Da qui si perde allo sguardo solamente il reparto “pane e salame”, al primo piano. Il resto si vede tutto. E si sente tutto. La baldoria allo spaccio dei vestiti è il sottofondo costante di tutte le altre attività. È un pendolo sonoro e incessante. Ogni dialogo, saluto, passo, ogni rumore di ogni azione compiuta nel piazzale più grande è totalmente coperto dalle urla di quelli che danno e di quelli che ricevono magliette, camicie e scarpe. È un bazar. Un suq nordafricano, ma a mezz’ora di metropolitana dal Duomo. «Non più di tre pezzi a persona». Raffaele e Lucia istruiscono la folla mentre distribuiscono stoffe e calibrano le corporature con sguardo addestrato. Su una staffa di ferro tubolare sono perfettamente allineati i capi per taglia e colore. Fra questi ci sono abiti di un corvino luttuoso e una finta pelliccia leopardata che, sotto il sole di giugno, fa sudare solo a guardarla. Ai più non importa. Per loro quei cenci malconci sono capi d’alta boutique e per averli si arriva perfino a fare a gomitate. «Forza signore, stanno terminando le taglie forti!».

«Diciassette anni fa servivamo quattrocento persone al giorno. Oggi sono circa mille. E il cibo è sempre meno». Saverio Rebecca è il patron della sede di viale Monza 335. Ha un accento trevigiano inconfondibile e un sorriso bonario e un po’ assente che ricorda quello di Dario Fo. È un’ex guardia giurata e una volta in pensione, nel 1993, ha contribuito a creare la seconda sede dell’associazione dopo quella di viale Toscana, dove il gruppo nacque nel 1898. «Questa struttura cadeva a pezzi. Ci sono voluti 300 milioni di lire per rimetterla in sesto. Credo che ospitasse la sede del Pdup». Il riferimento al partito di Unità proletaria per il comunismo fondato da Lucio Magri e gli altri ragazzi del manifesto, fa venire in mente che, all’ombra di quell’immobile, la dottrina di ieri si è trasformata nella pratica di oggi. La suggestione è affascinante, ma sbagliata. In realtà quel luogo in cui ora si distribuiscono beni una volta era uno dei caselli del dazio di Milano, dove i beni si esigevano.

«Chi vuole una 40/42?». Il grido è talmente acuto che si fa fatica a capire se a emetterlo sia Raffaele o Lucia. Quando una donna tale e quale, per silhouette e portamento, alla tabaccaia di Amarcord si avvicina con la mano alzata, la voce si distingue. È quella di Raffaele. «Signora non va bene la quarantadue per lei». «Come no? fino a qualche anno fa portavo proprio la quarantadue, sai?». Fino a qualche anno fa, appunto.

Al banco alimentari, la prima tappa, si elargiscono il pane, lo yogurt e il salame. «Meno che ai musulmani, non mangiano maiale. Per loro tagliamo una fetta di formaggio», dice Carlo. «Cerchiamo di farlo bastare», continua Saverio. «Una volta i viveri erano di più, da qualche anno non c’è più nessuno che fa offerte e i grandi partner fanno sempre più fatica a causa della crisi. La Granarolo, per esempio, prima portava ingenti quantità di alimenti, oggi stenta pure lei. Ma sono puntuali, ogni lunedì passa il camion a consegnare». La carenza delle derrate è figlia della crisi e delle nuove tecniche di marketing. A Saverio, tutti i grossi fornitori che lavorano con Pane Quotidiano, raccontano che i supermercati ormai comprano i prodotti anche a pochi giorni dalla scadenza. Così costano meno. E ai produttori conviene di più vendere sottocosto che regalare alle associazioni.

«Anche lei 44 signora? La 46 non ce l’ho più. Provi la 44, via». Davanti a Lucia non ci sono solo donne. Al suo singolare atelier fanno la fila anche gli uomini. Arraffano per loro e per le mogli, le compagne, le conviventi, le amiche particolari. «Ma io mica conosco tua moglie, che ne so se le sta bene o no, dille di venire e troviamo qualcosa anche per lei». A farsi vedere qui molte signore non ci pensano proprio. Per vergogna. Per discrezione. Per entrambe le cose. Altre, invece, si presentano in coppia.

«Senta, posso sapere che cosa succede? È mio marito questo qui». La moglie di Giacomo teme un interrogatorio di polizia. Si calma quando capisce che il taccuino appartiene a un giornalista e non a un commissario. Il marito è un pensionato. Non se la passa male rispetto a molti altri. Il suo sussidio è di 1050 euro al mese, ma, dice, «non basta, per questo vengo qui». Ha un fare imbarazzato come quello di Piero che, ironia della sorte, lavora in un ristorante, ma non ce la fa a mangiare. È timido nelle sue spalle incurvate e saluta con un gesto conciso dopo poche, scontate, battute, mentre una bambina al suo fianco ride di gusto e di inconsapevolezza. Aldo ha sessant’anni ed è un ex autista privato. Dopo il divorzio è rimasto solo. Da una decina di anni viene ogni mattina. «Si risparmia tanto anche se prima davano molto di più». Vincenzo è pugliese di Poggio Imperiale. Vive a Milano «da una vita, sono arrivato nel ’58». A Pane Quotidiano si fa vedere da appena un mese. È un muratore in pensione e la sua teoria sull’assistenzialismo è semplice quanto disarmante. «Qui ti aiutano veramente e non devi fare altro che presentarti. Non devi dimostrare niente e non devi piangere miseria. Che poi questa è la cosa peggiore perché se piangi la gente invece di darti cinque lire in più te ne da cinque in meno». Il fraseggio di Vincenzo ricorda il motto dell’associazione: “Fratello…Nessuno qui ti domanderà chi sei, né perché hai bisogno, né quali sono le tue opinioni”.

L’anonimato è così tutelato da proteggere insieme ai veri poveri anche quelli che «vengono ma non hanno bisogno di niente. Si sa chi sono, hanno anche risparmi in banca, ma approfittano del fatto che qui nessuno fa domande. Come fai a mandarli via?». Potrebbe essere una dichiarazione congiunta, tanti sono i volontari che la ripetono. Dal vertice alla bassa manovalanza nessuno ha remore a parlarne.

Ma in fondo poco pare importare. «Siamo una famiglia ormai. Ci conosciamo tutti. Il segreto è dimostrare dolcezza e simpatia. Così andrà sempre tutto bene e, anche se gli dai pesche quasi marce, non ci litigherai mai». Marco è uno dei più intraprendenti. È la sua l’ultima faccia che chi viene qui vede prima di uscire. Ha l’obbligo, che rispetta con una precisione svizzera, di distribuire la frutta nelle buste. Redarguisce chi gli porge direttamente le mani, ma richiama all’appello chi dimentica di ritirare la propria razione. Per lui il protocollo crolla solo di fronte ai più piccoli. Le regole impongono di dare una porzione solo a quei bambini che hanno già imparato a camminare. E spesso le mamme fanno alzare dai passeggini quelli che ancora gattonano per ottenere più frutta. «Per me non c’è bisogno di farlo. Alle famiglie diamo di più. I bambini hanno bisogno di mangiare. Sono tre? Gli do l’equivalente di cinque porzioni di prima scelta». Le altre, di seconda, sono a disposizione libera di tutti prima dell’uscita. Sono al limite del commestibile, ma «buone per farci la macedonia. Ti pare che chi ha fame possa rinunciare a cibo gratuito?», dice Giovanni, un altro volontario. Unico avviso: chi esce non può rientrare fino al giorno dopo. Gli alimenti sono quelli che sono e calcolarne la distribuzione è un’operazione necessaria a sapere quante persone sono state servite. A fine mattinata l’agenda blu di Saverio riporterà la voce “860 ospiti” che si aggiungeranno agli altri 102.161 accolti da gennaio ad aprile di quest’anno.

«Ehi giornalista, perché non scrivi dell’inquinamento della Martesana?». Angelo, mister 400 chilometri a settimana, prova a buttarla lì, mentre racconta della figlia che studia per entrare nel mondo della televisione. Oltre a pedalare e mondare la frutta, cura l’orto dietro la grande cella frigorifera. Qui si trova di tutto con il naso prima ancora che con gli occhi: menta, uva, fichi, salvia, radicchio, kiwi, pomodori e un gelsomino in fiore che è un capolavoro olfattivo. «È una delle cose più belle che abbiamo». Insieme ai suoi compagni, Angelo propone le persone da intervistare, quelle meno timide e più aperte al dialogo. La sua spalla comica è Floris. «Mangia una di queste, capo». «Grazie, ho appena fatto colazione e poi le pesche servono per gli altri». «Come vuoi, capo». Ucraino, 39 primavere, ha due figli e vive in Italia da sette anni. Lavorava come operaio a Rho, finché il suo principale non ha deciso di fare «casino con il permesso di soggiorno». Oggi combatte la morsa della disoccupazione dandosi da fare come volontario. Si alza alle sette, smista il cibo e aiuta a tradurre le richieste di quelli che vengono dai paesi dell’Est. Anche lui sogna di andare in tv. «Sono simpatico, mi prendono subito». Lo vedi frugare con le mani nel ciarpame per cercare qualcosa di presentabile al palato. Poi sparire, e ancora ricomparire sottobraccio a un improbabile intervistato. «Prendi una sigaretta, giornalista». Ecco naufragare per qualche ora i buoni propositi della sigaretta elettronica. «Guarda lì, giornalista, quello è uno che dorme in macchina. Ci vuoi parlare?» Io con lui sì, lui con me no. «Vengono ogni giorno a chiedermi se voglio raccontare la mia storia, ma non me la sento proprio. Mi scusi». L’uomo, rossastro in volto per l’impaccio è uno dei tanti che fila via. Uno di quelli che dal banco frutta passano con fare rapido, quasi come se temessero di essere visti, o addirittura riconosciuti. C’è chi azzarda che scappino da se stessi. Lo fanno con una sveltezza tale da svuotare oltre quaranta casse di pesche dopo appena un’ora. I volontari sono madidi di sudore, ma sollevati perché insieme al piacere di dare una mano c’è anche il fattore tenda di cellophane sotto la quale lavorano. Fa ombra, ma provoca un effetto serra da far stare male.

«Di spalle è giusta. La 44 è la tua taglia, ti calza a pennello. Ora so quello che fa per te». I vestiti sono quasi terminati. Rimangono le taglie più difficili. Quelle perfette. Dicono che qui capita di trovare anche qualche capo firmato, donato da gente con il grano e le misure perfette. Questione di fortuna. Oggi il piatto forte della casa è una partita di borsellini dell’Adidas che odorano ancora di fabbrica.

Aldo ne ha presi due. Uno per lui e uno per il suo compagno. Viene dall’Egitto, ha sessantadue anni, i capelli ossigenati e cammina su due stampelle mezze rotte. Racconta che ha lavorato in Italia per 25 anni nel settore alberghiero, «ho visto tante cose belle della vita, finché…». Finché la vita gli ha giocato qualche brutto scherzo. Oggi vive con una pensione di invalidità, tredici fratture disseminate in tutto il corpo, un pacemaker nuovo di zecca e una lista d’attesa per un trapianto di cornea. «Nessuna chiesa ti aiuta, nessuna moschea, nessuna sinagoga. Il vero aiuto, quello necessario a vivere, me lo danno qui». Le sue parole fanno pensare a due cose. La prima è che il nome Pane Quotidiano evoca un verso della preghiera più recitata nel mondo. La seconda è il fatto che ognuno di quelli che lavora qui ha tenuto a precisare che l’organizzazione è fieramente laica. E indipendente. «Nessun partito politico ha mai messo naso qui dentro. Con gli assessori ci incontriamo solo una volta ogni dieci anni per rinnovare il contratto d’affitto della sede», svela Saverio. Poche settimane fa si è tenuto uno di quegli incontri e l’associazione si è garantita l’uso della sede di viale Monza per altri dodici anni con un affitto agevolato di 10mila euro all’anno.

«Per oggi abbiamo finito. Torni domani per la gonna e la camicetta. Forse rimediamo qualcosa anche per i suoi bambini. Arrivederci».

Sono le undici, la coppia del reparto abiti ha finito il suo turno. Sistemano le stampelle nei container e salutano gli altri.

Pian piano escono tutti. Qualcuno, invece, entra in ritardo correndo alla disperata ricerca del suo sacchetto di cibo. Le sedie a rotelle dei più anziani vengono spinte fuori dal cancello e uno dei volontari sussurra timidamente una storia che potrebbe riassumere questa e tutte le altre giornate. «Sai cosa penso? Che quelli che hanno veramente bisogno non chiedono mai niente. In due anni di volontariato me l’ha fatto capire una ragazza che si è presentata qui qualche tempo fa. Era di una bellezza indescrivibile. Non saprei dire da dove venisse. Ricordo solo che era molto a disagio. Si muoveva a passi millimetrici e sembrava pensare più agli altri che a se stessa. Probabilmente non era mai entrata in un luogo così. Non ha fatto la fila come tutti, ma si vedeva da lontano che era affamata. Ha aspettato finché non ne poteva più e poi ci ha chiesto se poteva raccogliere un pezzo di melanzana gettato a terra dopo che l’avevamo scartato. Se mi chiedi che volto abbia la fame, non ho dubbi. È il volto meraviglioso di quella ragazza».



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