La Seconda Rivoluzione egiziana

Due anni e mezzo dopo aver cacciato il dittatore Hosni Mubarak, l’Egitto vive una nuova trasformazione. Questa volta però il clamore popolare e l’esercito hanno deposto il primo presidente del paese eletto democraticamente. Il prisma delle vicende di questi giorni ha restituito i distinti colori di una ancora incerta seconda rivoluzione egiziana.

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/998336_10151582593403425_1037379315_n.jpg[/author_image] [author_info]di Angelo Attanasio, dal Cairo. Giornalista freelance e videomaker, corrispondente da Barcellona della rivista The Post Internazionale. Realizza reportage e multimedia per varie testate europee e latinoamericane su società, conflitti, politica e cultura in Spagna, nei Balcani e nell’area del Mediterraneo.[/author_info] [/author]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/1011201_10151582590878425_939170313_n.jpg[/author_image] [author_info]di Jeronimo Giorgi, dal Cairo. Giornalista freelance uruguaiano. Ha iniziato la sua carriera dopo aver conseguito il Master in Giornalismo dell’Uiversità di Barcellona, città in cui vive. Ha viaggiato e pubblicato i suoi testi e foto da Sudan, Nigeria, Albania, Macedonia, Senegal e Turchia tra gli altri. Collabora con giornali e riviste spagnole e latinoamericane.[/author_info] [/author]

La rivolta

Rosso. È il colore del Tamarod –rivolta, in arabo– e delle centinaia di migliaia di cartellini rossi che i manifestanti hanno mostrato a Mohamed Morsi domenica 30 giugno, quando si compiva un anno dalla sua nomina a presidente, il primo nella storia d’Egitto eletto democraticamente. Per questo, i giovani attivisti dell’organizzazione Tamarod avevano scelto proprio quella data per reclamarne l’espulsione.

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Già due giorni prima, alcuni manifestanti avevano iniziato ad occupare piazza Tahrir, l’epicentro della rivoluzione del 2011 e il simbolo di questa nuova autostima collettiva chiamata primavera araba. Ma il rosso, bianco-nero e bianco delle bandiere che punteggiavano l’enorme spianata erano sovrastate dalla spessa patina grigia ed ocra che avvolge la città e le rammenta che il deserto è lì a due passi. Le strade d’intorno e gli edifici Bahuaus del centro– vecchi signori eleganti dalla livrea logora e sporca – assistevano ancora imperterriti ai quotidiani ingorghi de Il Cairo. Solo i clacson di scarcassate FIAT 128 iniziavano a marcare il ritmo delle grida dei manifestanti riuniti sotto un palco. “Erhal, erhal, erhal”. “Vattene, vattene, vattene”. Stava per cominciare la rivolta.

Se il malcontento sociale è stato la fiamma della protesta, la piaga della crisi economica abbattutasi sul Paese ormai da tre anni ne è stato il combustibile, e il tentativo di islamizzazione delle istituzioni la scintilla. La caduta dei profitti del gas, la fuga degli investitori stranieri e soprattutto la debacle del turismo, dovuta all’instabilità politica, hanno messo al tappeto una società già duramente colpita. Fu in questo contesto che nel novembre del 2012 Morsi si assegnò per decreto poteri quasi illimitati. Il rifiuto da parte del potere giudiziario e di gran parte della popolazione riuscì a invertire la deriva autoritaria, ma lasciò sul terreno l’autorevolezza di un presidente eletto con più del 50% dei voti.

Alla fine di aprile di quest’anno un gruppo di giovani attivisti riuniti sotto il nome di Tamarod lanciava per le strade e sulle reti sociali una campagna per raccogliere 15 milioni di firme, due in più dei voti ottenuti da Morsi, con l’obiettivo di chiederne le dimissioni. Il sabato precedente alla mobilizzazione, il portavoce dell’organizzazione, Mahmud Badr, annunciava che avevano raggiunto la cifra di 22 milioni di firme e che la manifestazione della domenica seguente avrebbe messo il punto finale all’esperienza di Morsi al governo.

L’ora del Tamarod era giunta e milioni di persone in tutto il paese arrivarono puntualmente all’incontro con la rivolta. Infinità di bandiere egiziane tappezzarono i centri nevralgici di Il Cairo, Alessandria, Assuan e delle principali città del paese. I cartellini rossi appesi al collo di uomini, donne, bambini e anziani iniziavano ad incarnare il simbolo di una nuova rivoluzione sulle rive del Nilo.
A Il Cairo, quando i muezzín avevano già chiamato all’ultima preghiera della sera, centinaia di migliaia di persone riempivano piazza Tahrir e i le strade intorno al Palazzo Presidenziale di Heliopolis.

“Vogliamo un presidente che ami il suo Paese. Morsi invece non ama gli egiziani”, affermava Ahmed Gamal, un giovane studente di ingegneria. “Staremo qui finchè non va via”, assicurava tra un’imprecazione e l’altra agli elicotteri militari che sorvolavano torvi sulla piazza. “La nostra società ha bisogno di mangiare, non delle sue politiche radicali”, gli facevo eco Martha, una quarantenne che aveva raggiunto Tahrir mano nella mano con suo marito. “Siamo credenti ferventi e aspettiamo che si compia il miracolo e Morsi se ne vada”. Tuttavia, poche ore dopo un portavoce della presidenza, Omar Amer, annunciò: “Il presidente sa di aver commesso errori e sta lavorando per risolverli”. Quella notte il miracolo non si sarebbe realizzato.

L’ultimatum

Bianco. La mattina successiva, le lenzuola diafane usate come tende al centro di piazza Tahrir facevano risaltare ancor di più la cappa di sporcizia che ne ricopriva il pavimento. Dopo la giornata del Tamarod, Il Cairo si svegliava spianandosi le grinze di una notte di rivolta pacifica. Le strade che fino a poco prima erano state inondate di manifestanti tornavano ad essere territorio esclusivo di taxi e moto spericolate. Alcuni commercianti tiravano su le persiane e i venditori di tè si riposizionavano agli incroci. Intanto, Morsi continuava il suo silenzio.

Verso le cinque del pomeriggio, un altro silenzio calò sui caffè, nelle case e nei crocicchi di tutto l’Egitto. I televisori trasmettevano il volto compunto del Capo dell’esercito e Ministro della Difesa, Abdel Fattah al-Sisi, che dava un ultimatum a tutte le forze politiche del paese per trovare una soluzione alla crisi politica. “Se le richieste del popolo non saranno soddisfatte entro le prossime 48 ore, sarà compito delle forze armate annunciare una road-map per il futuro. La gente ha espresso la sua volontà con una chiarezza senza precedenti e sprecare altro tempo aumenterebbe solo le divisioni e la violenza”. Il conto alla rovescia aveva inizio.

Prima un boato; poi grida, canti e clacson. All’unisono, milioni di persone accorrevano per le strade. Le dichiarazioni di al-Sisi erano risuonate alle orecchie di gran parte della popolazione come un appoggio alle proprie rivendicazioni. Quando il sole tirava giù le tende dietro l’ultima moschea della città, piazza Tahrir si convertiva nuovamente nel tempio di tutte le mobilizzazioni e la funzione sarebbe durata un’altra lunga notte. “Amiamo Al-Sisi e il nostro esercito”, gioiva Amany mentre sua madre e tutta la gente intorno acclamava gli elicotteri militari che sorvolavano la zona sventolando enormi bandiere con il tricolore rosso, bianco e nero.

Tuttavia, un’altra ombra si allungava sui colori della piazza: quella della violenza sessuale contro le donne che partecipavano alle proteste. “Non è facile parlarne, ma abbiamo deciso di farlo per denunciarne i responsabili”. Seduta nervosamente sul sofà del suo appartamento al centro del Cairo, una giornalista de La Repubblica raccoglie le parole per spiegare le violenze subite insieme ad una giovane amica inglese. Il Tamarod era già cominciato da un pezzo quando, in un ansa oscura della via che dal lungo Nilo sfocia a Tahrir, si videro circondate da alcune decine di uomini, che le spintonarono in un angolo più buio. Iniziarono a palparle dappertutto finchè la giornalista italiana non cadde per terra. “In quel momento una mano mi prese e mi strattonò via. Sono scappata, ma ho perso di vista la mia amica”.

Solo durante i primi tre giorni di manifestazioni, in piazza Tahrir si registrarono almeno 91 casi di stupri, secondo le organizzazioni che si occupano di prevenirli e denunciarli. Secondo Mariam Kirollos, attivista di OP Anti Sexual Harrasement/Assault, “ci sono indizi sufficienti per affermare che queste violenze sono organizzate e dirette, ma senza le prove non si può far niente”.

“La violenza sessuale è funzionale ad alcuni interessi, perché spaventa le dimostranti e macchia l’immagine della rivolta”, spiega la giornalista con los guardo deciso. Dopo un breve silenzio, i suoi ricordi ritornano alla domenica sera, quando una telefonata le avvisava che la sua amica inglese era in un’ambulanza diretta verso l’ospedale. La ragazza era stata trascina in un vicolo e lì una trentina di uomini le strapparono i vestiti e le procuraro dei tagli, prima che alcuni clienti di un caffè riuscissero a metterla in salvo.

Più forti della paura, migliaia di donne parteciparono a tutte le manifestazioni che chiedevano le dimissioni del presidente, anche nella giornata dell’ultimatum. Quella stessa notte, Morsi affermava in un comunicato che non si sarebbe dimesso.

La caduta

Nero. Il carbone delle shisha – le pipe d’acqua che profumano di tabacco alla mela le fumerie – si incendia ad ogni calata. Alcuni uomini, seduti sulla terrazza del caffè di Abdin, a pochi isolati da Tahrir, fumano e sorseggiano tè davanti ad un enorme televisore che continuava a trasmettere immagini di repertorio, in attesa degli eventi. Con il passare dei minuti, le ormai decine di uomini che avevano occupato tutte le sedie del bar, iniziavano a disperdersi. L’annuncio non era arrivato.

In quello stesso momento le forze armate iniziavano ad occupare le principali vie, ponti e edifici statali. I militari, che attraversavano Il Cairo con veicoli corazzati, salutavano la folla con la V di vittoria, mentre gli elicotteri sorvolvano il cielo sopra Tahrir esibendo il tricolore. Il governo era caduto. O almeno così veniva interpretato il gesto.

Alle 9 di sera il Generale Fattah al-Sisi dichiara la destituzione di Morsi. Circondato dai leader delle diverse confessioni religiose del paese e dei partiti dell’opposizione, Al-Sisi proclamava anche la sospensione della Costituzione. Era l’annuncio del colpo di stato militare contro un governo eletto dalle urne.

Piazza Tahrir si illuminò subito dei colori dei fuochi artificiali. Centinaia di venditori ambulanti esibivano con entusiasmo i palloncini, i fischietti e tutto le chincaglierie della rivoluzione. Il gusto della vittoria era insaporito dai fichi d’india e dai lupini, letteralmente presi d’assalto. “Non posso contenere la mia felicità”, esplodeva di gioia Youssef Fawzi, un ingeniere elettronico di 29 anni, che sulla fronte si era fatto dipingere in rosso il messaggio Lunga vita all’Egitto. “Festeggerò fino all’alba”, gridava mentre raggiungeva i suoi amici. Alcuni metri più avanti, Fathy Snour, un maestro elementare, camminava insieme ai suoi figli verso la piazza. “Voglio che i miei bambini vivano in pace. È un momento molto importante per il nostro paese. L’Islam è di tutti, non di un solo partito”. Morsi non era più il presidente d’Egitto.

La reazione

Verde. Alle dieci di mattina di giovedì, le bandiere dei Fratelli Mussulmani sventolavano attorno alla moschea di Raba al Adiwiya, dove erano concentrati dal giorno del Tamarod i sostenitori di Morsi. Alla stessa ora, Adly Mansour, il presidente della Corte Costituzionale, giurava solennemente come presidente ad interim, ma non aveva una costituzione su cui farlo.

Le strade recuperavano la normalità, dopo la quarta notte consecutiva di adunate. I negozi del centro riaprivano e inondavano le strade di abiti e scarpe, mentre il frastuono delle vuvuzelas lasciavano spazio ai clacson del caotico traffico quotidiano della città più grande d’Africa.

Lontano vari chilometri da Tahrir, i fedeli del presidente recentemente deposto continuavano ad aspettare Morsi davanti alla moschea di Raba al Adiwiya, nel quartiere dormitorio di Ciudad Nasr, ad est della città. Sebbene il clima fosse disteso, dai volti di quelle poche migliaia di uomini trapelava la tensione. “Siamo arrabbiati perché il Generale Al-Sisi ha ignorato il risultato di elezioni democratiche”. Hasan Hasn, un ventenne affiliato ai Fratelli Musulmani è convinto che gli sia stata rubata la rivoluzione. Poco più avanti, le grida raggelanti di una anziana richiamavano l’attenzione dei presenti. “Quelli di Tahrir sono dei mercenari, si sono venduti per poche piastre”, si lamentava urlando al cielo Siem Abdil Kadr. E dava appuntamento per il giorno dopo. Il “venerdì del rifiuto”.

Dopo la preghiera di mezzogiorno, centinaia di migliaia di simpatizzanti di Morsi raggiunsero i propri compagni a Raba al Adiwiya  per chiedere la restituzione della presidenza al loro leader. “Non abbiamo paura, perché loro sono il nostro esercito”. Lo diceva sul serio, Mohamed Yhia, il responsabile del servizio d’ordine della protesta davanti ai veicoli militari in fila su un lato del viale principale di Città Nasr. Davanti a lui, una ventina di ragazzi con casco da operaio e parasterno da kung-fu gridavano verso i soldati imprecazioni contro il Generale Al-Sisi, il traditore. “Ammazzateci, picchiateci, puniteci, ma noi non ci fermeremo finché non Morsi non torna”, era il loro coro.

“Rimarremo qui fino a quando non ci restituiscono il nostro presidente”, concludeva Yhia, mentre al suo fianco sfilavano degli uomini coperti da testa a piedi con il kefan, la tunica bianca que nella tradizione islamica serve ad avvolgere i cadaveri prima di sotterrarli. Altri, accasciati su tappeti stesi sull’asfalto, tornavano alla lettura del Corano. Tra un gruppo ed un altro, dei ragazzini componevano con pietre e sabbia delle frasi sull’asfalto. Una di quelle recitava: “Martiri della legalità”.

Nel frattempo, su piazza Tahir per tutto il pomeriggio gli aerei acrobatici disegnavano nell’aria cuori con i colori rosso, bianco, e nero, mentre gli elicotteri sventolavano la bandiera egiziana e delle forze armate. I militari sovegliavano i punti nevralgici del città e il paese sembrava sotto controllo. L’ambiente festivo era generale e nessuno sembrava occuparsi neanche del tributo di decine di vittime e un migliaio di feriti che anche questa rivolta aveva voluto riscuotere

“Non sono né a favore né contro degli uni o degli altri”, riassumeva con fare noncurante Hani Shaban, rincasando da piazza Tahrir. “Solo chiedo a Dio che aiuti il nostro paese. Ho paura di quello che può succedere, ma non ci sarà una guerra. Tutti gli egiziani sono fratelli”. Fratelli che in questo momento vedono il futuro del loro paese con colori distinti.



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