Omar

Il regista Hani Abu Assad sposta il racconto dell’occupazione dall’iconografia più tradizionale al territorio invisibile dell’anima

di Cristina Piccino*, da NenaNews

Vivere in certe realtà esige un ferreo allenamento fisico e psichico, si deve correre veloci, saper saltare, essere agili nei sensi e nei muscoli, cogliere ogni rumore e intuire gli agguati. E soprattutto non cedere alla paranoia che trasfigura qualsiasi persona, anche la più amata, rendendola un possibile nemico. Ne sa qualcosa Omar (Adam Bakri) cresciuto nei territori occupati, dove Israele ha affinato il controllo più che attraverso check point e continue incursioni nella messa in opera i una sapiente rete di tensione.

Omar fa il panettiere, per visitare gli amici salta il muro, conosce i segreti invisibili dei tetti. Lì tutti ma proprio tutti possono essere nemici, possono essersi venduti per ragioni di qualsiasi tipo agli israeliani, anche i leader, anche coloro che rivendicano la purezza (e Hamas su questo fonda la sua persuasione). Con gli amici di infanzia Tarek e Adjam, Omar cerca di partecipare alla causa di liberazione rifiutando la logica suicida dei martiri però. Così sparano a un soldato israeliano e lo ammazzano provocando soltanto repressione.

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Gli israeliani gli stanno addosso e arrestano Omar, lo torturano con violenza, sigarette sui genitali, coltelli, lui resiste ma si fa scappare un «io non confesserò mai» al compagno di cella che ovviamente è il capo degli israeliani. A quel punto per non restare tutta la vita in galera ha una sola possibilità: uscire e consegnargli colui che credono essere l’assassino del soldato ma facendo il doppio gioco. Omar ha un punto debole, Nadia, la ragazza che ama più di ogni cosa, e l’amore in quella realtà è molto pericoloso.

Hany Abu Assad, rivelato da Paradise Now, fa parte di quella generazione di cineasti palestinesi che cercano di confrontarsi col conflitto mediorientale da prospettive eccentriche e mai scontate Accadeva nel primo suo film, Paradise Now appunto, in cui due amici passano la sera insieme prima di compiere un attentato suicida a Tel Aviv, finendo per rigettare il fondamentalismo, e accade in questo Omar (Certain Regard, si è guadagnato il premio della giuria) dove il racconto dell’occupazione si sposta dall’iconografia più «tradizionale», al territorio invisibile dell’anima.

Cosa è il quotidiano di vive nel recinto di un muro, con gli slogan gridati nelle orecchie, qualcuno che dispone della tua vita e la necessità di mostrarsi eroi? Basta meno per diventare pazzi, e difatti Omar impazzisce. L’amata sedotta con i versi lo lascia per Ahmjad perché lui è un traditore – come è riuscito infatti a farsi liberare dagli israeliani? E poi è pure incinta dell’altro, che tiene gli occhi bassi e a sua volta ha tradito ma chi tradisce chi sembra essere una specie di catena senza scampo. A questa strategia della paranoia è dedicato il film, rivelata attraverso il progressivo spaesamento del personaggio Omar, la cui vita finirà per essere manipolata dagli israeliani che gli mettono sotto la pelle persino una sonda che ne segue i movimenti. È questa forma di controllo, subdolo, quasi introiettato, manipolato dal fondamentalismo, sembra diventare per Assad una delle ragioni primarie della sconfitta palestinese.

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Almeno in quel progetto politico di leggerezza rivoluzionaria che negli anni si è appesantito di ideologie del controllo – un po’ come Omar che non riesce più a saltare dall’altra parte sul muro. La Palestina aperta di sensibilità avanzata degli anni settanta non c’è più distrutta da Israele che ne ha ammazzato i suoi leader e dalle divisioni interni, fino al trionfo di un pensiero macho dell’onore da difendere, che impedisce di guardare oltre. Se Omar perde la sua donna è perché non ha la capacità di una visione oltre le apparenze della verità. Quella che fa comodo per far credere al paradiso, o a qualcosa di simile, poco rivoluzionaria, molto pericolosa. Nena News

*Questo articolo e’ stato pubblicato il 28 maggio 2013 dal quotidiano Il Manifesto



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