Storie di neocolonialismo. La corsa alla terra raccontata dalle strade della Cambogia
di Germana Lavagna, da Phnom Penh
Phnom Penh ha due milioni e trecento mila abitanti. E’ una città che cresce in fretta. Sotto l’acqua dei monsoni vedo alzarsi grattacieli imbastiti di scheletri di bambù. Qui i cantieri assomigliano a foreste geometriche. Impalcature come rami e uomini in bilico tra polvere e pioggia.
A qualche isolato dalla mia finestra, nel cuore della città, si estende un pezzo di terra intriso di lotte e sofferenza.
Il quartiere di Borei Keila è una delle tante storie di ingiustizie legate alla terra di questo Paese. Il 3 gennaio del 2012 tra le 6 e le 11 del mattino, un manipolo di poliziotti, soldati e forze di sicurezza si faceva strada tra le case degli abitanti. Ruspe al seguito e dietro di loro più nulla. Nel giro di qualche ora, quel poco che già era tanto chiamare casa, per 1700 famiglie era diventato polvere.
Sollevo con le scarpe una massa indefinita di terra e liquami mentre Chandra mi trascina in un labirinto ti plastica e lamiera. Mi affaccio sulla soglia di qualche baracca. Il caldo è soffocante, l’aria è densa e la macchina fotografica continua ad appannarsi. Le parole si accumulano, l’inglese qui non esiste.
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La Phanimex, la società che ha messo le mani sul quartiere, ha innalzato un muro di cinta tra il terreno conquistato e l’ultima serrata roccaforte di baracche. Chi è rimasto si contende un posto asciutto dove dormire e chi non c’è è perché è stato ri-allocato in mezzo al nulla della periferia di Phnom Penh. Una donna mi tira per una manica: “Hanno provato a costringerci ad accettare una nuova casa nelle campagne fuori città o 100 dollari e un appezzamento di terra di cinque metri per dodici nella provincia di Kandal” – mi porge un foglio e prosegue – “Non vogliamo arrenderci, non vogliamo finire a Toul Sambo”.
Le famiglie che, senza ormai più nulla, sono state costrette a trasferirsi in campagna, vivono in condizioni estreme. In assenza delle più basilari infrastrutture, i siti di riallocamento sono campi profughi al buio della più totale indifferenza. L’accordo che lega la Phanimex alla proprietà del terreno, la obbliga a costruire 10 condomini in grado di ospitare le persone che qui vivono da decenni. Un accordo che è stato rivisitato e digerito da un apparato burocratico connivente e che ha visto il suo adempimento solo in parte. Fino ad ora, sono poche le famiglie che sono riuscite ad ottenere il diritto ad una nuova casa. Ad una casa vera.
Abbasso la testa per tirarmi fuori da una tenda, tiro il fiato e alzo lo sguardo. Le ombre dei palazzi sul limitare dell’ultimo pezzo d’asfalto allungano la propria ombra sulle tende blu di Borei Keila.
Domani mattina Chandra e le altre donne della comunità torneranno a protestare davanti al Comune. Legheranno parole come cantilene e sfideranno per l’ennesima volta le minacce di uno Stato che in nome del progresso ha tradito il suo popolo.