L’Osservatorio sulla Repressione, insieme a un gruppo di attivisti e avvocati, ha il merito di aver avviato il percorso e di aver dato vita a un censimento delle denunce penali contro militanti politici e attivisti di lotte social, che ha già raccolto 17mila casi.
di Luciano Muhlbauer
Con la sentenza della Cassazione su Bolzaneto di un mese fa si è chiuso anche l’ultimo dei grandi processi simbolo sul G8 di Genova. E il risultato complessivo di 12 anni di processi –e di un processo mai iniziato: quello per l’omicidio di Carlo Giuliani- è a dir poco sconfortante. Già, perché nonostante fosse stato accertato che le forze dell’ordine si erano rese responsabili di un numero impressionante di gravi reati contro la persona, di abusi, violenze e torture, non chiamate così unicamente perché il nostro ordinamento non prevede tale reato, nessuno, ma proprio nessuno si è fatto neanche un giorno di galera.
Anzi, per dirla tutta, quasi tutti gli alti dirigenti di pubblica sicurezza implicati nella vicenda hanno ottenuto delle promozioni. E, ciliegina sulla torta, pochi giorni fa Gianni De Gennaro, allora Capo della Polizia e oggi sessantacinquenne, è stato addirittura nominato Presidente di Finmeccanica.
Eppure, cosa spesso ignorata dall’opinione pubblica, qualcuno si trova rinchiuso in carcere per i fatti di quel luglio genovese e, per giunta, con delle pene pesantissime, cioè fino a 14 anni di detenzione. Attualmente sono in tre e si chiamano Marina, Alberto e Gimmy. All’epoca erano tra i manifestanti e furono presi più o meno a casaccio. Non hanno ucciso nessuno, anzi, non sono nemmeno mai stati accusati di reati contro la persona, ma soltanto di aver danneggiato delle cose.
Ma, a questo punto, vi chiederete sicuramente come sia possibile che qualcuno venga condannato a più di dieci anni di carcere, cioè più che il doppio rispetto al massimo di pena previsto per omicidio colposo, per il semplice fatto di aver spaccato una vetrina. Semplice, è possibile, ahinoi, grazie a un mostro giuridico chiamato “devastazione e saccheggio”, per cui è sufficiente che tu quella vetrina la spacchi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, cioè in un contesto generale considerato di “devastazione e saccheggio”, ed ecco che scatta una pena tra 8 e 15 anni di reclusione!
Ovviamente, la vetrina rotta, che è un semplice reato di danneggiamento, va in qualche modo collegata al contesto generale di “devastazione e saccheggio”, che invece è un reato contro l’ordine pubblico, ma per questo è incredibilmente sufficiente tirare in ballo –e purtroppo non stiamo scherzando- concetti ambigui e generici come la “compartecipazione psichica”…
Il ricorso al reato di “devastazione e saccheggio”, ereditato dal codice penale fascista (Codice Rocco) e mai abolito dall’Italia democratica, è però soltanto la punta dell’iceberg, la manifestazione più estrema e aberrante di una tendenza generale, accentuata dalla situazione di crisi economica, che porta a ridurre il conflitto sociale a mere questioni di ordine pubblico. E quindi, dalla mobilitazione studentesca fino alla Val di Susa, le risposte repressive e le pene tendono a farsi sempre più sproporzionate ed esemplari.
Non è certamente un caso che dal 2001 a oggi si contino ben 11 sentenze definitive per reati di “devastazione e saccheggio”, compresa quella per i fatti di Genova 2001, a cui vanno aggiunte 7 persone condannate in primo grado a 6 anni di reclusione per i fatti accaduti il 15 ottobre 2011 a Roma, mentre per la stessa manifestazione altre 18 sono ora imputate ed è in corso il processo.
Ma appunto, il reato di “devastazione e saccheggio” è solo la manifestazione più estrema, perché gli strumenti a disposizione sono molteplici e spesso, più degli strumenti stessi, conta la modalità e l’intensità della loro applicazione. In fondo, per un precario o un operaio cassintegrato anche una multa salata per blocco stradale può risultare devastante.
Oggi c’è un problema generale, troppo spesso sottovalutato anche a sinistra. Non un problema astratto, anzitutto, ma maledettamente concreto, perché significa tra l’altro che ci sono delle persone costrette a lunghe e sproporzionate pene detentive, non per quello che hanno effettivamente fatto, ma perché bisognava mandare un messaggio a tutti gli altri. Ed è indubbiamente un problema politico di primissimo piano, una questione di qualità della democrazia, di salvaguardia delle libertà costituzionali, di praticabilità del dissenso sociale. Insomma, è un problema che non riguarda qualcuno, ma tutti e tutte.
E il fatto che tutto ciò avvenga mentre lo Stato e chi lo governa si mostra incapace di porre fine all’impunità delle forze dell’ordine, che non si riesca nemmeno a imporre il numero identificativo sul casco delle unità antisommossa, mentre persino in Turchia ce l’hanno, rende ancora più urgente e imprescindibile che si rompa finalmente il silenzio e si prenda un’iniziativa.
Per questo è nato il Manifesto per un censimento delle denunce e l’amnistia per le lotte sociali (http://www.osservatoriorepressione.org/2013/06/censimento-sulle-denunce-alle-lotte.html), per costruire una campagna politica e pubblica per l’abolizione del Codice Rocco e per un’amnistia per i reati legati alle lotte sociali.
L’Osservatorio sulla Repressione, insieme a un gruppo di attivisti e avvocati, ha il merito di aver avviato il percorso e di aver dato vita a un censimento delle denunce penali contro militanti politici e attivisti di lotte social, che ha già raccolto 17mila casi. Ora si tratta però di fare il passo successivo, di far crescere e allargare l’iniziativa, anche soltanto mettendoci faccia e firma. Facciamolo, è importante e urgente e, soprattutto, ci riguarda.