Massimiliano Hütschenreuther ha quarantatré anni. Suo figlio Giacomo, otto.
Uno dei due fa il cameriere in una pizzeria, l’altro la terza elementare.
Abitano a sei chilometri di distanza, in due quartieri opposti della stessa città.
Questa è la storia di come stanno diventando grandi insieme, un giovedì dopo l’altro.
“Il Giovedì” è un’opera di finzione letteraria: qualsiasi riferimento a persone ed eventi realmente esistenti è da considerarsi un’incredibile sfortunata coincidenza.
Il triceratopo mi fissava cieco con occhi posticci che tradivano la sua natura, che in un tempo per me inimmaginabile era stata erbivora quindi mansueta quindi spacciata.
Immobile da quarant’anni dentro al museo, in quel pomeriggio mi stava perfettamente di fronte.
Ma io non ero lì per lui: io ero lì per gli umani. Mi ero trovato un angolo comodo in fondo alla sala, e da lì osservavo la lentissima stramaledetta parata delle famiglie. Tra quei pochi che a dire il vero entravano, facendolo a intervalli disordinati sconnessi, i bambini più piccoli stringevano sempre la mano del padre. A quei cuccioli di tre-quattro anni, la stessa età di Giacomo, quell’enormità preistorica doveva sembrare -appunto- enorme e preistorica. Trattenevano il respiro per un istante, premendo le unghie nel palmo del genitore, poi spinti piano da dietro o tirati per il braccino, toccavano cauti le zampe o la coda di gesso e -rassicurati- finalmente liberavano il fiato, che da corto si faceva quieto, e infine tornava al ritmo normale dei loro polmoni puliti.
Io dal fondo meticolosamente studiavo quei bambini, cercavo di proiettarmi addosso i loro bellissimi movimenti minuscoli naturali, in attesa di viverli lì in quella stessa sala, qualche ora dopo, nel mio primo primissimo giovedì con Giacomo.
Avevo deciso di fare quella prova generale perché volevo che tutto fosse perfetto, senza sorprese, come coreografato. Volevo muovermi come un escapista o un negoziatore che avesse studiato tutte le possibili vie d’accesso e di fuga. Così in quel mercoledì pomeriggio di vigilia ero andato a perlustrare il museo, nello zaino la maglietta ancora macchiata calda di pizzeria. Ma nella prima sala mi ero bloccato davanti al grande dinosauro, e da lì non mi ero più mosso.
Ci eravamo già incontrati quarant’anni prima: io con le minuscole dita intrecciate a quelle tedesche di mio padre; la bestia di gesso con lo stesso sguardo privo di vita e le stesse corna, grandi come le gambe di un uomo. Allora mi era sembrata monumentale e terribile. Repellente. Bellissima. Se hai paura vagli vicino, aveva detto mio padre. Io l’avevo fatto, ma la paura non era passata. Allora eravamo sfilati subito oltre, verso l’alce il capodoglio i pinguini.
Adesso, in quel mercoledì pomeriggio, io e il dinosauro ci eravamo ritrovati. Dopo di me era entrato subito un uomo con la barba e con un bambino. Si parlavano timidi, come se si conoscessero poco. Il piccolo ascoltava attento l’adulto, che improvvisava forse inventava. Guardavo lo spazio tra loro, ed era minimo, spesso annullato da un contatto che non era mai casuale. L’uomo parlava e accarezzava la testa al bambino, che gli premeva sul braccio e faceva brevi domande elementari. Ogni tanto diceva: Davvero? Ogni tanto diceva: Papà. Vale la pena guardare, avevo pensato; perché più che i nomi di ogni anfibio mammifero pesce era quella grazia spontanea che dovevo imparare.
Ne erano arrivati poi altri, nonni con nipoti intere famiglie padri con figli, e ognuno aveva esibito il suo modo di spendere insieme quel tempo. Qualcuno era stato persino piacevole da seguire, anche se ogni volta gli avevo sovrapposto me e Giacomo, cercando di indovinare cosa saremmo stati noi due, ventiquattro ore dopo. Nella mia visione ne uscivamo sempre più belli, più delicati, più inseparabili. Infine ero uscito alla chiusura serale, comprando i due biglietti per il giorno successivo, Il Giovedì, nell’impeto della pianificazione perfetta. Non è necessario, aveva detto la cassiera. Non capiva che io volevo solo essere meravigliosamente idealmente pronto come un padre meraviglioso ideale.
La notte, per l’emozione l’attesa, non avevo dormito.
Eppure il giorno dopo era arrivato in fretta, il primo giovedì della mia nuova inconcepibile vita, e io eccitato e raggiante, con addosso mezz’ora di anticipo e una camicia pulita, rigido in piedi davanti al citofono di una casa che era stata anche mia, mi ero ritrovato a fissare il nostro cognome bianco in rilievo sul nero del nastro Dymo adesivo
HUETSCHENREUTHER
a riflettere che Hütschenreuther io non l’avevo mai scritto con l’umlaut. Avevo sorriso a quel “ue” al posto di “ü”, un vezzo che mi aveva passato mio padre, lui che detesta quei due puntini e li snobba come volgari, bavaresi, moderni. Nessuno ha mai scritto Goethe con l’umlaut, mi aveva detto una volta. E per tutta la mia giovinezza quell’appunto era stato per me definitivo come gli incipit di certi vangeli.
Avevo premuto il pulsante e Sali, aveva gracidato Simona da dentro il citofono. L’androne, che fino a così poco tempo prima era stato familiare normale immobile, era mutato. Riconoscevo ogni inutile differenza: il foglio appeso all’ingresso dall’amministratore, le riviste nelle caselle della posta, l’impronta di un dito sul muro. Cose diventate diverse eppure rimaste senza importanza.
Nell’ascensore, tremavo saltavo ridevo.
Immaginavo la forza morbida con cui Giacomo avrebbe allacciato le braccia al mio collo. Sentivo già sulle guance il fresco dei suoi piccoli baci bagnati. Toccavo i biglietti dentro la tasca coi polpastrelli. Sognavo i suoi occhi spalancati davanti al primo gigantesco dinosauro di gesso della sua vita.
Ma quand’ero entrato in casa dalla porta blindata socchiusa, senza preamboli Simona mi aveva detto: Giacomo ha trentanove di febbre. Aveva aggiunto dell’altro, ma non l’avevo capito perché il triceratopo aveva iniziato improvviso a barrirmi furioso dentro la testa, mentre mi si seccavano le gote e gli occhi mi si gonfiavano di sale e di acqua.
Ero entrato bruscamente lentissimo, il corpo molle come privo di scheletro. Nella penombra del soggiorno, Giacomo stava sdraiato sul divano e fissava i cartoni alla tele con uno sguardo preistorico vuoto quasi gassoso. Era un uccellino che guardava un cane che inseguiva un gatto che rincorreva un topo. Mi ero seduto accanto al suo corpicino disteso avvolto nel plaid, e lì ero rimasto tutto il pomeriggio di quel nostro primo giovedì insieme. Pochissime e semplici le parole, e quasi tutte mie; moltissimi i suoi lamenti, i piccoli pianti, le continue rese a sonni brevi sparsi agitati. Nel dormiveglia aveva messo due volte la mano sulla mia. La sua mano soffice che letteralmente scottava.
Alle sette, pregando di aver fatto incetta del suo odore del tepore del suo fiato della sua bellissima faccia malconcia, mi ero dovuto alzare, mi ero infilato le scarpe, ero uscito. Ma prima, prima di ogni altra cosa, A giovedì, avevo detto muovendo piano le labbra e senza usare la voce. Che non si svegliasse, il mio uccellino biondo che finalmente dormiva.
Fuori il cielo era ancora una volta bianco, ancora una volta un coperchio. La macchina mi aveva portato automatica alla pizzeria. Alla prima quattro formaggi, il profumo di Giacomo era svanito.
***
Il giorno dopo Simona mi aveva faxato una pagina. Era dell’asilo di Giacomo: serviva la mia firma per l’autorizzazione a una gita. Il foglio diceva che il martedì successivo i bambini avrebbero visitato il museo, quel museo, pranzo al sacco portato da casa. Avevo firmato, rifaxato, avevo controllato di avere ancora i biglietti nella tasca. Poi avevo chiamato in pizzeria per avvisare che quel martedì avrei saltato il turno del pranzo.
***
Dal fondo della sala del museo vedo la classe arrivare: Giacomo è biondo guarito per mano a una bambina coi capelli ondulati. Mi faccio più piccolo, quasi mi mescolo al muro. Ridono e mentre ridono chissà di quale semplicissima cosa sfilano accanto al dinosauro, del tutto impassibili alla sua mole. Un secondo, e sono già nella sala successiva, a ignorare altre enormità altre minuscolerie altre bellezze. La sala ritorna vuota, senza più l’eco; l’occhio del triceratopo resta fisso rivolto impassibile al muro e al mio corpo in piedi, che adesso però si muove e prende l’uscita.
Sulle scale, io tremo salto rido.
Fuori c’è il sole avvolto in un cielo disegnato azzurro a matita. Sono felice d’aver visto Giacomo una volta in più di quel che mi spetta e provo un sollievo che è luminoso. Lo stesso di quando all’università ho scoperto che si scriveva eccome, Göthe con l’umlaut. Ma ho deciso che a mio padre non l’avrei detto mai.