Da oltre 40 anni era sull’orlo del collasso. Un tempo simbolo della decadenza urbana americana, oggi, nonostante povertà e disoccupazione, sta rinascendo. Viaggio attraverso un laboratorio urbano post-industriale.*
Di Emanuele Bompan
foto di Giada Connestari
Caduta: Il deserto metropolitano
Detroit è la quintessenza della crisi della civiltà urbana statunitense. Basta ascoltare il flusso delle arterie autostradali che lambisce il deserto post-industriale, ecosistema predominante a Detroit, fatto di vuoto e rovine. Palazzi abbandonati, case bruciate, aree una volta urbane intervallate da avamposti di case solitarie tra prati erbosi e fabbriche dimesse. “The D” come la chiamano amichevolmente i suoi abitanti, è una città che sembra lentamente scomparire. Il dato più rappresentativo è la popolazione totale, passata da 2,2 milioni a meno di 800 mila in meno di 20 anni, dispersa su una superficie di 370 kmq, un’area sufficiente per contenere, Boston, Manhattan e San Francisco ed avanzare 50 kmq, ma con un decimo della popolazione.
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Città operaia per antonomasia, la motown è la punta della mezzaluna d’acciaio, oggi arrugginita, che costituiva, con Milwaukee e Chicago, l’asse industriale americana. La disoccupazione ha dei livelli altissimi: oltre il 40 per cento. La popolazione è composta da una maggioranza di afro americani e da una comunità musulmana tra le più grandi in Usa. Molti dei “bianchi”, invece, hanno abbandonato Detroit seguendo un trend diffuso, quello dei white flights, le migrazioni di cittadini bianchi, dai centri delle città americane desegregate verso i nuovi suburbi. Un esodo iniziato nel luglio 1967 a seguito degli scontri tra gente di colore le forze dell’ordine e esercito. Nei riots morirono 43 persone, 467 furono ferite, oltre 7200 arrestate e più di 2000 case bruciate, lasciando una ferita visibile ancora oggi. Nelle aree suburbane intorno a Detroit, alcune annoverate tra le più ricche d’America, un immenso sprawl di quasi 3 milioni di persone, si celebra il sogno americano, tra shopping mall e distese di case monofamigliari dai giardini ben curati. Dentro i confini della città dei Motori invece decine di migliaia di case rimangono abbandonate, le erbacce infestano i giardini e quasi tutti i negozi in franchising hanno chiuso.
[blockquote align=”none”]Le cause di questa desertificazione, aggravatasi negli ultimi anni, che ha spinto migliaia di persone sulla strada, vanno ricercate nei licenziamenti nel settore automobilistico, nelle elevate tasse sulla proprietà (in caso d’insolvenza si procede al sequestro) e nei prestiti predatori, dove clausole nascoste e termini mal negoziati hanno ingannato migliaia di debitori. Come Yvonne Blessett, 47enne, cassa integrata da Chrysler, che si è vista pignorare la casa svalutata, dopo 8 anni di rate pagate. Chi rimane deve affrontare inoltre una crescente ondata criminale dove piccole gang assaltano case abbandonate o le bruciano per conto di chi cerca di ripristinare i valori immobiliari di un tempo o intascare una polizza assicurativa. [/blockquote]
Per molti però il responsabile della crisi non è solo l’industria automobilistica o quella creditizia ma l’amministrazione comunale. Secondo A.M, studentessa, il comune è “corrotto e composto da una manica di incompetenti”. I cittadini, tra gli scandali dei vari ex-sindaci (si vota a novembre) e un deficit da oltre 300 milioni di dollari, per il quale più di un economista ha ipotizzato la bancarotta, hanno smesso da tempo di credere nell’amministrazione. Non sono serviti a rivitalizzare il bilancio (e la fiducia) progetti come i casinò Motor City e Greektown o il nuovo stadio Comerica Park. Insomma nessun indicatore statistico sembra mostrare trend positivi di ripresa e la stampa internazionale scrive il necrologio di Detroit oramai da anni. E’ dunque la prima città contemporanea destinata a svanire, come una Cartagine del XXI secolo?
Rinascita. La città solidale
Si frenino le lacrime. Il polso di Detroit pulsa, più forte che mai, anche se non è semplice da individuare. “the D” è invero una sopravvissuta al declino delle città americane. Molti dei suoi abitanti sono convinti e felici di vivere in questa strana città. Dove gli occhi dello straniero vedono solo una metropoli arida e vuota, le persone che la abitano rivelano invece esistere comunità vibranti, alla ricerca di forme di economia alternative sostenibili, nuove coscienze dell’essere cittadini attraverso un’inedita partecipazione del basso e innovativi spazi sociali autogestiti da pensionati, giovani disoccupati, parrocchie o attivisti. “La necessità si fa virtù” – sentenzia Lottie Spady, attivista – “e la gente reagisce in maniera creativa e spesso sorprendente”. Detroit sta rivelando, infatti, una forza sotterranea che unisce organizzazioni non governative, movimenti, singoli cittadini, artisti, università e commercianti. C’è qualcuno che celebra Detroit come una piccola utopia, chi la definisce un’opportunità per ridisegnare il concetto di città, chi è assolutamente entusiasta di vivere una vita rurale nel cuore di un’area metropolitana.
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In una sala della Chiesa Centrale Metodista a una dozzina di persone discute animatamente armeggiando con i propri portatili. «Agire locale per ricostruire il tessuto sociale ed economico », questo il tema dell’incontro. Ahmina Maxey, 27 anni, organizzatrice Ussf e membro del gruppo di ecologia politica East Michigan Environmental Action Council spiega che “un esempio dell’azione diretta dei cittadini da a Detroit sono le fattorie informali e i community garden, piccoli orti ricavarti in spazi abbandonati o dismessi. La città ha molti problemi ambientali, dall’inquinamento dall’aria ai suoli contaminati dalle imprese abbandonate e mai bonificati. Ma uno dei più immediati è l’assenza di cibo fresco disponibile: Detroit è quello che si chiama un food desert, un luogo dove non c’è accesso per chi non dispone di un auto al cibo, gli alimentari si trovano spesso a miglia di distanza dalle abitazioni. Questo tipo d’agricoltura, biologica e sostenibile, può essere la chiave per il futuro della città”. Maliki Yakini, direttore del Detroit Black Community Food Security Network, è il creatore di D-Town Farm 8000 mq di fattoria urbana, nei pressi di Rouge Park. Qua si crescono verdure biologiche, si produce miele e s’insegna a coltivare e conservare i prodotti della terra per essere venduti ai mercati locali. Gli orti, sono oltre 170, diffusi ovunque per la città. Girando in auto si possono scovare vere e proprie fattorie con capre, mucche e cavalli, a pochi passi da Woodward avenue, una delle vie centrali di Detroit.
Il vero problema di Detroit rimane però quello dell’abitare e della gestione urbanistica. La città ha una densità abitativa minima, dispersa a macchie di urbanizzato, dove in molti casi le abitazioni sono fatiscenti o vuote. La pianificazione urbana è inesistente in molte aree. Stufi di aspettare i cittadini hanno pensato di fare da soli. Southwest Housing Soultions, una onlus locale, ha trovato una ricetta perfetta per trasformare dal basso l’urbanistica della città. Impiegando un mix tra fondi pubblici, volontariato, donazioni, project financing e imprenditorialità, Tim Thorland, visionario direttore di Southwest Housing Solutions (Shs) ha impostato la strategia sulla densificazione dei centri abitati per riattivare la comunità, specialmente nel quartiere Southwest. “Noi compriamo case a poco le sistemano, riqualifichiamo l’isolato magari dando avvio ad attività commerciali ed educative co-finanziate, mettiamo a disposizione abitazioni sociali miste dove homeless, famiglie e studenti convivono evitando così ghetti di emarginati. E per chi ha problemi di insolvenza offriamo servizi gratuiti d’assistenza”.
[blockquote align=”none”]A dare valore ai nuovi agglomerati e alle nuove pratiche degli spazi posti-industriali ci pensa anche il fervido sostrato artistico di Detroit, città del blues e mecca della techno, ma anche sede di creativi, artigiani e istituti d’arte di livello. Uno dei progetti più esemplari in cui l’arte ha dato nuova linfa alla città è l’Heidelberg projecy. Paesaggi fantastici, case a pois, installazioni come barche piene di pupazzi di animali o stormi di strani tetrapodi ricavati da ex-aspirapolveri riescono a riportare la vita in spazi urbani abbandonati e offrire una terapia per i suoi abitanti . “Questo è quello che serve a Detroit!” spiega il creatore Tyree Guyton “una medicina per cambiare la città. Le persone sono stanche e sono forzate dalla situazione a pensare in una nuova maniera”. [/blockquote]
Heidelberg project però non è solo una bizzarra istallazione ma come spiega la manager di Tyree, “la fondazione di un piano urbanistico per riqualificare l’intera area che lentamente sta decollando, creando un ostello per giovani, laboratori, e imprese legate al turismo culturale. Un progetto utopico ma con soluzioni concrete” Qualcuno come Phil Cooley, artista e proprietario del ristorante BBQ Slows, è venuto appositamente a vivere a Detroit. «E’ un luogo che include dove la gente lavora insieme, dove tutto è possibile per ricreare la città. Non lascerei mai Detroit». Nei posti più impensati fioriscono spazi creativi dove il topic costante è la rielaborazione dello spazio urbano, come il Russell Industrial Center, un incredibile laboratorio sociale, ricavato da un ex-fabbrica dove persone come Oneita Porter, ex impiegata Chrysler ora creatrice di monili sotto il logo grrlDog design, convive e progetta nuovi spazi sociali condivisi. “E’ come se si fosse ricreato un ambiente culturalmente fertile come gli anni ’60, conferma il suo compagno Aaron Timlin, direttore del autorganizzato Contemporary Art Institute of Detroit “con una disponibilità di spazio illimitata”. Tra le macerie forse il rinascimento di una nuova cultura urbana sta mettendo radici e Detroit, laboratorio inaspettato di nuove pratiche e di nuovi modi di pensare la città. The D è sicuro, avrà molto da mostrare in futuro a tutte le città che lentamente stanno affondando nel proprio immobilismo e nella crisi economica.
* Questo reportage è stato realizzato un anno prima la notizia del default dichiarato nei giorni scorsi dalla città di Detroit