Al quarto piano del Museo nazionale della capitale Yangon c’è una sezione dedicata alla ”cultura etnica” con una sfilza di manichini, uomo-donna, uomo-donna, vestiti con i costumi tradizionali di ciascuno dei popoli della Birmania.
di Alessandra Fava
E’ una galleria lunghissima, sotto vetro, con nome del popolo, cartina geografica e l’area in cui sono maggiormente diffusi. Vorrebbe essere un trionfo della pace e dell’uguaglianza e infatti i Bamar, l’etnia principale, per lo più buddista, è messa in mezzo come nulla fosse. Il turista magari non sa che solo otto popoli vengono considerati come ”razze etniche nazionali maggiori”: Kachin, Kayah, Kayin, Chin, Mon, Bamar, Rakhine, Shan; che i Bamar, l’etnia principale (68 per cento della popolazione) fanno la parte del leone, controllano esercito e potere e sopratutto che ci sono decine di altri popoli, dai Mon ai Rohingya, torturati e perseguitati. Le violenze maggiori avvengono nelle aree cuscinetto anche perchè la gente potrebbe contestare qualche progetto di gasdotto, una ferrovia costruita in quattro e quattr’otto dai cinesi o comunque diventare un occhio troppo attento nelle aree delle miniere di pietre preziose.
”E’ uno stato poco democratico e razzista”, dice un diplomatico occidentale. Forse è una semplificazione. Tuttavvia abbiamo incontrato degli Shan nel nord del paese perseguitati perchè facevano politica col partito del pavone, ma sopratutto a causa delle loro origini, leggibili nei tratti somatici: viso largo, zigomi alti, sembrano discendere dai mongoli. Proprio il 23 di giugno l’esercito è intervenuto massicciamente nello stato Shan, nel villaggio di Wan Warb (http://shanhumanrights.org/) distruggendo un tempio buddista e scacciando decine di monaci.
Ecco perchè grandi aree nel nord, nord-ovest, nord-est e ovest del paese sono assolutamente vietate ai turisti, ai giornalisti e spesso anche alle associazioni straniere di assistenza sanitaria, perchè i popoli tanto decantati nel Museo nazionale vengono perseguitati, sloggiati, allontanati e pullulano campi profughi al confine con la Cina, India e Bangladesh.
L’organizzazione Avaaz sostiene che solo negli ultimi 2 anni, sono stati creati 100 mila profughi e distrutte 9 mila case del popolo Rohingya (due milioni circa di persone), che abitano nello stato di Rakhine, prima chiamato Arakan, nella parte occidentale del paese. Secondo altre fonti i profughi più recenti sarebbero 150 mila, che si aggiungono a decine di migliaia già sfollati negli anni Novanta in Bangladesh e in parte rimpatriati sotto l’egida delle Nazioni Unite. Le violenze più recenti hanno avuto una recrudescenza col governo di Thein Sein insediatosi il 30 marzo 2011, appoggiato dal partito della premio Nobel San Su Kyi. I Rohingya infatti non hanno la cittadinanza birmana nonostante alcuni di loro siano stati eletti parlamentari, sono per lo più mussulmani e vivono in una zona di confine in cui il governo vede meglio la presenza dell’etnia Bamar. Per cui i Rohingya vengono allontanati per costruire sui loro terreni dei villaggi modello con un centinaio di nuove case dove vengono installati dei coloni protetti da una base militare. Quelli che ancora vivono nel Rakhine sono costretti a pagare dei permessi per gli spostamenti più brevi dal villaggio di residenza, pagare la registrazione di nascite e morti di familiari e in alcune zone è proibito fare più di due figli. ”Bisogna che il processo in corso da due anni, per la verità piuttosto soft, non faccia dimenticare le violazioni dei diritti umani, l’incremento delle violenze e delle torture, specie nei confronti dei Rohingyas”, ha detto la portavoce di Avaaz , Celestine Foucher, lanciando una petizione che ha raccolto un milione di firme, in occasione della visita del premier birmano Thein Sein nei giorni scorsi in Europa, al premier inglese David Cameron e a quello francese Francois Hollande (in italiano https://secure.avaaz.org/it/burma_the_next_rwanda_loc/?fp) .
La questione è annosa e tocca il tema dei diritti umani, spesso calpestati da uno stato ancora fortemente militarizzato e poco democratico. Ad aprile anche Human Rights Watch ha parlato di ”pulizia etnica” a proposito dei mussulmani Rohingyas. Su http://www.rohingyablogger.com/ che raccoglie 500 articoli dal 2005, potete leggere storie terribili come quella di una settantina di donne portate in Tailandia dai trafficanti e costrette a prostituirsi, un drammatico leit-motiv che colpisce molte donne delle campagne birmane.
Le ong internazionali chiedono quindi alla Ue di occuparsi di diritti umani, oltre che di allentare le sanzioni sul Myanmar per permettere alle loro aziende di sbarcare nel paese delle pagode.