Il museo della Storia dell’Immigrazione di Parigi: una storia controversa, come se nessuno ne volesse la responsabilità
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/IMG_1484.jpg[/author_image] [author_info]di Cora Ranci, da Parigi. Dottoranda di ricerca in Scienze Politiche a Bologna, dove studia il caso Ustica. Come giornalista ha collaborato con PeaceReporter, E il mensile, Colors Magazine, L’Unità e Presseurop, occupandosi di esteri e di diritti. E’ coautrice del video documentario “Terra in moto” che racconta l’Emilia dopo il terremoto del 2012. E’ milanese, di solito vive a Bologna, ma attualmente si trova a Parigi perchè crede che ogni tanto sia necessario cambiare punto di vista.[/author_info] [/author]
“Ton grand-père dans un musée” (Tuo nonno dentro un museo). E’ efficace questa campagna di comunicazione lanciata dal museo della Storia dell’Immigrazione di Parigi. La città è costellata di questi manifesti dal sapore retrò: fotografie storiche ritraenti scene di vita quotidiana di immigrati in Francia del secolo scorso, e quattro frasi d’effetto. Una riporta un dato molto forte: “Un francais sur quatre est issu de l’immigration“, un francese su quattro, cioè, “discende” (proprio nel senso di “essere nato”) dall’immigrazione.
Mi incuriosisco e decido di visitare questo museo nato nel 2007 e che l’allora presidente Sarkozy ha preferito non inaugurare. Non stupisce che un museo come questo sia nato tra le polemiche perché pochi temi sono caldi come quello dell’immigrazione. E il tentativo di musealizzare, quindi di fissare e di codificare, un fenomeno così complesso e in continuo divenire non poteva che essere un’operazione difficile. Ci sono voluti vent’anni per farlo. Prima Mitterand ha preferito evitare, temendo la reazione del nascente partito xenofobo di Le Pen. Poi nel 2004 Chirac ha acconsentito, per dare slancio alle politiche per l’integrazione. Ma una volta deciso di farlo, si trattava di scegliere il “come”, e il risultato, mi è parso, è stato davvero un compromesso.
Intendiamoci, il museo è veramente ben fatto. E’ multimediale e interattivo, con pannelli informativi touch screen e testimonianze video e audio. E’ strutturato per temi e raccoglie documenti davvero emozionanti, come fotografie d’epoca, oggetti originali come valigie, effetti personali del secolo scorso, diari, vecchi passaporti, ritagli di stampa. Si ha l’impressione di entrare nell’affascinante galassia di una storia sociale un po’ dimenticata. Mi hanno colpito le fotografie delle famiglie italiane emigrate nel sud della Francia più di un secolo fa: gli sguardi fieri e diffidenti, l’abbigliamento curato e dignitoso, nonostante tutte le difficoltà pratiche che una vita di povertà comportava. Gli italiani erano la comunità straniera più numerosa in Francia. Si vede anche un giovane Sandro Pertini immortalato nel 1927 mentre fa il muratore durante il suo esilio politico in Francia. Non me lo immaginavo così un futuro presidente della Repubblica italiana, con le scarpe impolverate e un secchio sulla spalla. Dovremmo ricordarcelo più spesso, in Italia, questo capitolo della nostra storia, penso.
Ma la Francia ha un’altra storia, è terra di arrivo. E questo ha determinato e continua a determinare la sua identità: basta fare due passi in strada per rendersene conto. Il museo valorizza il contributo degli immigrati alla costruzione della Francia, contro un nazionalismo che da queste parti troppe volte tende a escludere, a tracciare un “noi” contro un “loro”. Dopo aver visto i manifesti della campagna, mi aspettavo però una presa di posizione critica. E invece ho notato che alcuni temi scomodi sono ignorati o trattati molto marginalmente. Penso in particolare alla rivolta delle banlieue del 2005, ma anche al rapporto sempre difficile col passato coloniale e con la France-Afrique.
Esco con uno strano senso di incompiutezza. Ma insomma, cosa mi voleva dire esattamente questa mostra? Mi sembra manchi di un’interpretazione, che resti sospesa tra troppi non detti. Mi giro per ammirare il bellissimo edificio che ospita il museo, il Palais de la Porte Dorée. Leggo che è stato costruito nel 1931 in occasione dell’esposizione coloniale internazionale e che in seguito ha ospitato il museo permanente delle colonie che celebrava la storia delle conquiste francesi. Nel 1935 è diventato museo della Francia d’oltremare e poi museo delle arti dell’Africa e dell’Oceania. Dal 2007 è il museo della storia dell’immigrazione. Questo spazio, in fondo, è solo uno strumento. Un museo non è mai definitivo perché il rapporto col passato non è mai pacifico, ma cambia e si articola in modi diversi a seconda dei bisogni e degli interessi del momento. Una riflessione forse scontata che ha però l’effetto di farmi consigliare una visita a questo posto affascinante e suggestivo.