Il mondo fuori ti aspetta

La follia è un pozzo in cui cadi e non vedi più nessuno. Solo ombre che sembrano mostri e scricchiolii che ti rimbombano nelle orecchie. Elena un piede dentro ce l’aveva già quand’era bambina e sentiva le voci, Roberto ci è scivolato quand’era adolescente e si accaniva su idee fisse, Patrizia non riusciva più ad alzarsi dal letto e Cristina, dopo un matrimonio infelice, aveva appena trovato l’uomo della sua vita ma anche improvvisi attacchi d’ansia e di panico.

di Stefania Culurgioni

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Castelfranco Veneto, provincia di Treviso. Dentro alle cooperative che danno lavoro ai malati psichiatrici,  non riusciresti mai a distinguere chi è matto da chi non lo è. Accanto a colleghi “normali”, lavorano colleghi speciali, uomini e donne che quando sono arrivati erano persone spezzate, liquefatte dentro, con alle spalle decine e decine di giornate di ricovero in ospedale. Schizofrenici, per la maggior parte, che fino a poco tempo fa sarebbero stati rinchiusi nei manicomi.

“Qui arrivano solo casi gravissimi, e ogni utente viene per sua scelta – spiega Bruno Pozzobon, 65 anni, fondatore e presidente delle cooperative – sono persone con una malattia psichiatrica che a un certo punto ha preso il sopravvento. Si comincia a stare male, si inverte il modo di vivere dormendo di giorno e stando svegli di notte, non ci si cura più di sé stessi, non si va più al lavoro, ci si chiude in casa, si hanno disturbi della personalità, non si rispettano più le regole del vivere comune, magari ci si droga o si finisce per bere. Alla fine c’è il ricovero in ospedale, volontario oppure forzato, e i farmaci”.

Un inferno dentro di loro, e per le famiglie che non sanno cosa fare. Finché, per i casi più difficili, è il centro pubblico di salute mentale dell’Usl che, dopo averle provate tutte, propone una strada: “Consorzio in Concerto”, un distretto produttivo composto da 22 cooperative sociali di cui cinque socio assistenziali (o di tipo A) e sedici di inserimento lavorativo (o di tipo B). Diversificate in settori che vanno dall’assemblaggio industriale alla lavanderia, dalla falegnameria al giardinaggio, dalla produzione agricola ai trasporti. L’ultima spiaggia per persone che ci arrivano in cocci, con l’anima disastrata e appannata. Ma che da lì ricominciano a vivere. Oggi ci lavorano in 700 di cui 200, cioè il 30 % come previsto dalla legge, sono soci con problematiche psichiatriche.

 

[blockquote align=”none”]Il punto di forza sta proprio nel clima che si respira dentro ciascuna delle micro aziende. “A differenza di un’azienda normale c’è solidarietà, reciproco aiuto, comprensione – spiega Bruno Pozzobon – se qualcuno entra in crisi lo sostituiamo per un po’, se in un settore c’è più lavoro non imponiamo gli straordinari, ma facciamo girare le persone dalle altre cooperative”. Il risultato è un piccolo miracolo dell’economia che non ha risentito della crisi, con 55 milioni di euro di fatturato.[/blockquote]

 

Elena assembla pezzi

“Sono qui da tre anni ma posso dire di stare un po’ meglio solo da cinque mesi. Hanno trovato la terapia farmacologica giusta, e io stessa mi incaponisco di meno sui pensieri. Mi hanno diagnosticato la schizofrenia acuta”. Elena ha 28 anni ed è originaria di Castelfranco Veneto. “Soffrivo di voci, avevo allucinazioni acustiche – spiega – sono quindici anni che entro ed esco dagli ospedali ricoverata in psichiatria, e quando sono arrivata qui stavo ancora molto male. Poi il problema si è placato, il rumore di fondo è scomparso e per me è stata una liberazione”.

Lei il suo disagio lo ricolloca lontanissimo nel tempo, già da quando era bambina: “Ho dei ricordi, già da piccola, di questa specie di eco che mi parlava dentro – confida – mi hanno detto che forse la schizofrenia ce l’avevo già latente ma riuscivo a sopportarla. Poi a quindici anni ho cominciato a fare uso di droghe. La mia famiglia mi ha isolato per dieci anni, è stato un inferno. L’ultimo anno mi sono fatta un cocktail e lì è scoppiato tutto. Dicevo a mia mamma: ho paura a vestirmi, ad andare in giro. Avevo talmente forte questa angoscia che nemmeno riuscivo ad alzarmi dal letto, avevo paura che mi venissero a prendere e mi ammazzassero. Una volta sono entrata in casa, ho tenuto le luci spente, ho abbassato le persiane perché temevo che mi sparassero, avevo anche allucinazioni visive. Io ho tentato innumerevoli volte di parlare, di mostrare agli altri quali erano i miei pensieri, ma non ci riuscivo perché il dolore era talmente forte che mi uscivano solo lacrime. Ho passato dieci anni da sola con le mie angosce, le mie paure, i miei problemi. Ma non mi vergogno di raccontare la mia storia. So che esiste uno stigma forte verso chi è “matto”, alcuni possono sentirsi in imbarazzo ad ascoltare queste cose, ma è solo il primo momento. La cooperativa mi ha aiutato moltissimo. Oggi ho un lavoro, degli amici, un fidanzato, vado in giro senza problemi, mi sento meglio”.

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Dal centro riabilitativo al lavoro

Dai centri pubblici di salute mentale arriva solo il 13 per cento degli utenti con disturbi psichiatrici, solo i casi più gravi, che hanno almeno tre anni di trattamento e ricoveri ospedalieri alle spalle. L’obiettivo del Consorzio è di aiutarli a diventare autonomi, assumendoli dai centri riabilitativi A in una delle 16 cooperative di tipo B, dove diventano soci operai per 900 euro al mese. “Il lavoro lo scegliamo in base alla capacità e alle problematiche di ciascuno – spiega Pozzobon – c’è chi non sopporta il rumore, chi troppe persone intorno. Nessuno dei lavori è di tipo amministrativo. All’inizio ci abbiamo anche provato con i call center e l’inserimento dati, ma non andava bene. L’utente psichiatrico chiede automatistmi. Ricordo un anno che avevamo due ragazze laureate in lettere e decidemmo di fare una biblioteca. Loro dovevano gestire i libri e prestarli ai soci. Ecco, dopo sei mesi, o leggevi il libro che consigliavano loro, o non te li davano, quindi abbiamo dovuto chiudere. Oggi facciamo prevalentemente attività industriale”.

 

Michele, Patrizia, Roberto e le macchinette da caffé

In un capannone open space ci sono novanta operai con la testa china sulle linee di montaggio. Quaranta di loro sono “speciali”. Patrizia abita a Cittadella, in provincia di Padova. Fa le resistenze per la macchinetta del caffé e racconta: “I miei problemi sono cominciati circa 15 anni fa, mi è venuta un po’ di depressione, ma mi sembrava una cosa lieve, uno squilibrio così. Lavoravo molto, mi è passato in fretta. Facevamo i contadini, io, mamma, papà e mia sorella, mio padre era invalido di guerra, coltivavamo granoturco, avevamo un orto. Poi io ho vinto un concorso e sono diventata bidella in una scuola, ma ho cominciato a non stare bene davvero. Non ero più in grado di lavorare, mi sentivo stanca, avevo bisogno di riposo, non riuscivo a fare tutto. Dovevo pulire la palestra, i gabinetti, tagliare le siepi, raccogliere le foglie, mi sentivo sovraccarica, sono scoppiata. La preside non ha capito il mio disagio, ho fatto troppe assenze, mi hanno licenziata”. Oggi Patrizia vive con sua madre che ha 86 anni e si prende cura di lei, è stata anche nel consiglio di amministrazione della cooperativa e dice: “Non ho passato dei bei periodi, ma me la cavo, cerco di vivere”.

Per Roberto invece, 26 anni, perito elettronico, è cominciato tutto quattro anni fa, ma forse i primi segni c’erano già quando era adolescente: “Mi sentivo molto filosofo, dibattevo su tutto, soprattutto sulle questioni religiose. Aprivo discussioni coi miei amici, ma ero diverso dagli altri, c’era qualcosa di strano in me – racconta – ero un po’ ossessivo sulle mie idee. Mi ero creato una realtà tutta mia, travisavo tutto quello che c’era fuori, avevo delle credenze fisse che si manifestavano in modo forte, in una parola sono psicotico. Mia madre a un certo punto mi ha parlato: Robi, andiamo dal dottore. Io in quel periodo tendevo verso il nichilismo, consideravo tutto inutile, pensavo che niente fosse degno neanche di essere ascoltato perché privo di interesse, ero convinto che il meglio ero io, di non avere bisogno di nessun aiuto, dall’esterno mia madre mi vedeva strano, esaltato. Le prime settimane di ricovero in ospedale ho solo dormito, mangiato, preso medicine. Riuscivo a malapena a biascicare le parole e fare discorsi, poi piano piano mi sono ripreso.  È stata dura uscire dal quel periodo, poi sono arrivato alla cooperativa e mi hanno aiutato, ho un lavoro, ho trovato dei nuovi amici, prendo i farmaci che mi aiutano a stare meglio. Lo stigma su chi ha problemi psichiatrici nasce tutto dalla paura. Io però conosco solo persone che lottano per essere loro stessi, per non essere etichettate per quello che prendono ma per quello che sono e dicono. Quanto a me, sono sicuro che se fossi stato nel 700 sarei stato etichettato come un posseduto, un dannato, e mandato al rogo”.
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La lavanderia industriale e Cristina

Una volta, nella cooperativa Eureka, 98 operai, lavatrici industriali con 16 cesti, stiratori automatici, sistemi elettronici di catalogazione della biancheria, 100 quintali di indumenti lavati ogni giorno, successe un mezzo pandemonio. Era arrivato un nuovo psichiatrico, e la collega di fianco cercò di fare conoscenza. Gli disse: “Ciao, come ti chiami?”. “Mi chiamo Dino”, rispose lui. “Maddai, come il cane della mia migliore amica!”, le rispose felice la collega. E quello ci mancò poco che la picchiasse sul posto urlando che non si doveva permettere. Lo portarono negli uffici, ci misero un’ora a calmarlo. “Qualsiasi cosa, ogni giorno, può scatenare crisi del genere – racconta Mirella Mazzon, 49 anni, responsabile del personale – il solo fatto di cambiare di posto a un operaio, o che un responsabile si rivolga di più a uno che all’altro, cose insomma che le altre persone tollerano bene, per loro possono diventare delle tragedie, perché hanno una sensibilità diversa, perché questa diventa la loro famiglia”.

 

Cristina ha 52 anni, due figlie, una di 11 e l’altra di 25. “Il mio primo matrimonio è stato disastroso – racconta – mi ha scatenato l’ansia e gli attacchi di panico. Ma tutto è scoppiato proprio quando è arrivata la tranquillità: ho incontrato una nuova persona, finalmente ho trovato la serenità, mi sono rilassata e ho cominciato a stare male. Mio marito mi aiuta tantissimo, ma su certe cose c’è poco da fare per ora: ho paura della macchina a meno che non guidi io. Ho paura ad uscire. Una volta lavoravo nella cucina di un ospedale, poi cambiò la gestione, subentrò un’altra ditta, io non sono mai stata in grado di accettare quel cambiamento e ogni volta che entravo al lavoro e vedevo la porta della cucina mi sentivo male. Oggi qui ho trovato la serenità, devo stirare federe e tovaglioli. Il pregiudizio su chi ha problemi psichiatrici? A chi ne ha rispondo: vi auguro di stare sempre bene”.

 

Il mondo fuori ti aspetta

La follia è un pozzo in cui cadi e non vedi più nessuno. Ma qualcuno riesce ad arrampicarsi e ritornare al mondo fuori. Il Consorzio ha da poco firmato una convenzione con l’agenzia interinale Umana: chi se la sente, può abbandonare le cooperative e lavorare in un’azienda normale, senza i paracaduti emotivi del nido da cui è uscito. “Lo fanno in pochi, ma qualcuno ci è riuscito – spiega il presidente Pozzobon – per loro ha significato migliorare il loro salario, per le ditte che li assumono prendere operai specializzati. Persone insomma che fanno il loro lavoro, anche se hanno avuto problemi psichiatrici”. Dal 1991 ad oggi ci sono riusciti in trenta.



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