Aspetta tutti all’entrata con l’espressione mefistofelica e divertita rubatagli da Donatella Pollini. Sta lì, come un un burattinaio, o il capo di un circo pronto a introdurre lo spettacolo dell’unica grande attrice che lo abbia mai interessato: l’umanità
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/antonio.jpg[/author_image] [author_info]di Antonio Marafioti, da Milano. Giornalista, classe 1981. Ha iniziato a scrivere nel 2006 per Calabria Ora. Vive a Milano dal 2008. Dopo un master in Relazioni internazionali, è entrato nella squadra di PeaceReporter seguendo la politica statunitense e alcune battaglie sociali della Milano di fine impero: dai precari della scuola agli immigrati di via Imbonati. Per E-il mensile ha raccontato ognuno dei 192 giorni di lotta dei licenziati dei Treni Notte. È autore dell’ebook, Binario 21 oltre la torre. Ha collaborato con: Il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano online, Lettera43. [/author_info] [/author]
Lo show è lungo più di mezzo secolo, ma al Palazzo Reale di Milano la retrospettiva Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo, lo sintetizza in appena centottanta scatti scelti da un archivio di oltre un milione e mezzo. Sono storie raccolte dal 1954, quando il maestro di Santa Margherita Ligure, classe 1930, decise di descrivere il mondo con la sua piccola Leica. Non si fermerà più.
Collaborerà con le più grandi riviste italiane, a iniziare da Il Mondo di Mario Pannunzio, ma anche Domus, Epoca, L’Espresso e gli internazionali Time, Le Figaro e Stern. La svolta nel 1962 quando decide di mollare il negozio di famiglia a Venezia e trasferirsi a Milano per collaborare con il giornalista Rolly Marchi.
Altri tempi. Altra storia. Milano era una città in pieno fermento ideologico. Tre giornalisti della Zanzara, il giornale del liceo Parini, finirono in questura per un articolo che il giorno di San Valentino del 1966 osò porre domande sulla sessualità della donna. L’Italia si spaccava in due fra movimenti di sinistra e partiti cattolici di destra. Fra operai e padroni. Le lotte in fabbrica scoppieranno qualche anno più tardi, quando il piombo dei proiettili imporrà a tutti il coprifuoco. Il primo maggio del 1969 piazza Fontana era ancora intatta e i lavoratori festeggiavano per le strade di Milano con le gigantografie di Stalin, “Viva la dittatura del proletariato”, e Mao, “Servire il popolo”. Il capo del blocco sovietico era già morto da sedici anni, ma la sua immagine continuava a rappresentare uno dei simboli della lotta dei meno abbienti. Berengo Gardin lo racconta in uno scatto di Gente di Milano, le prime quaranta foto della mostra.
È un omaggio alla città che lo rese grande all’ombra bohémienne del Bar Jamaica che, dal secondo dopoguerra, accolse altri grandi maestri della fotografia contemporanea da Ugo Mulas a Mario Dondero e Alfa Castaldi. Si parlava di crescita fra un cognac e l’altro, di sviluppo, di marxismo-leninismo, ma anche di società. Si partiva dai tavolini di Brera e si raggiungeva l’altro capo del mondo con la Leica. Alla quale nel frattempo se n’erano aggiunte altre trenta. Diciannove sono in esposizione intorno a una foto che ritrae il fotografo ligure al lavoro con al collo sei esemplari.
È l’umanità che interessa a Berengo Gardin, non smette mai di ripeterlo. «Non sono un artista e nemmeno un grande oratore. Preferisco che a parlare siano le mie immagini». E le immagini parlano apparentemente senza seguire un nesso logico. Osservando la Gente di Milano ci si trova alla stazione Centrale nel 1970 fra i passeggeri in viaggio verso Roma. Con sguardi distratti, assorti e forse disperati. Tornano a casa o vanno a visitare la capitale con i risparmi del lavoro? Millenovecentonovantuno, stessa foto, stesse facce. Sono trascorsi ventuno anni, ma lo si capisce solamente guardando il filo di spago che chiude le valige della generazione precedente. Forse questi erano i figli o i nipoti dei quattro ragazzi che cantavano spensierati in una casa di ringhiera della Milano anni Settanta per le due spettatrici compiaciute al piano di sotto.
Forse quelli facevano le pulizie a casa delle signore dell’alta borghesia in giro per via Montenapoleone nel 1975. Sicuramente molti conoscevano Giò Ponti, Ettore Sottsass, Federico Zeri, Umberto Eco, Renzo Piano e Dario Fo, alcuni degli amici milanesi ritratti nel corso degli anni. Quando le immagini parlano non ci si stanca mai di ascoltarle. Anche se è un parlare muto pare di poterne sentire la voce. E hanno appena iniziato a raccontare.
Ora tocca a Venezia, si ritorna al ’60 quando piazza San Marco era sommersa dall’acqua alta e forse non era una cattiva idea vendere bolle di sapone ai passanti. L’ambulante con una cassetta di legno al collo trasporta decine di kit rudimentali come fossero noccioline allo stadio. Soffia per l’intera giornata. È strano pensare ai suoi polmoni sfiniti; oggi sarebbero risparmiati da un aggeggio “made in China” e un paio di batterie stilo. Otto anni dopo è l’anno della grande protesta studentesca alla Biennale di Venezia. È controllata dai “neri”, dicono, è un residuato fascista. Berengo Gardin è in Piazza San Marco, il suo scatto racconta. Racconta di un poliziotto in tenuta antisommossa che gli corre incontro brandendo un oggetto in mano. Lo scatto è mosso e non si capisce cosa sia quell’oggetto: è troppo corto per essere un manganello, è troppo lungo per essere una pistola. Non importa. È la minaccia che conta. L’immagine racconta che forse gli studenti non avevano tutti i torti. Che le delegazioni del Nord Europa solidali con i giovani, non abbiano fatto poi così male a ritirarsi dall’esposizione.
L’anno dopo, il Sessantanove, è stato quello della grande inchiesta sui manicomi. I coniugi Basaglia chiesero a Berengo Gardin e Carla Cerati di aiutarli a far capire l’inutilità, la brutalità, gli eccessi dei manicomi. L’obiettivo di Franco, psichiatra veneziano, era quello di introdurre in Italia la legge 180 e chiudere quei luoghi di tortura. Berengo Gardin gira e immortala la non vita nei manicomi di Firenze e Parma. Il bianco e nero che non lascerà mai, lo aiuta nella resa della tragedia. Morire di Classe rimarca l’isolamento estremo, selvaggio e totalizzante del malato. Dell’essere umano. La solitudine della malattia che le cure di allora non lenivano, ma esacerbavano. Perché, suggeriscono le immagini, non è una terapia valida quella con la quale si immobilizzano gli arti superiori con una camicia di forza e quelli inferiori con una benda di stoffa legata alla sponda del letto.
È l’umanità tormentata. Sono i suoi reietti. Con l’obiettivo Berengo Gardin li raggiunge, li ama e li protegge dandogli voce. Come fa con la Comunità Romaní in Italia un reportage sui campi rom che lo portò negli anni Novanta in giro per l’Italia, da Trento a Palermo, passando per Firenze. La diffidenza gitana lo obbligò a vivere in quei rifugi per quarantacinque giorni, senza macchina fotografica. Dovevano fidarsi. Dovevano conoscerlo. Poi è stato tutto una cronaca fatta delle immancabili roulotte parcheggiate sulla terra battuta di periferia, dei violini zigani e del vissuto intorno a un fuoco notturno. Sembra di osservare il fermo immagine di un film neorealista vedendo una madre che fa la doccia alla figlia dentro una tinozza. Si pensa alla temperatura dell’acqua. Al fatto che al tempo non tutti potevano avere le docce. Si pensa a uno scenario postbellico. Ma era un campo di Palermo, ed era il 1995.
L’impatto emotivo prescinde dal tempo e lo fa grazie al bianco e nero. «Perché il colore distrae», sostiene il maestro. Distrae dai volti, dalle persone, dall’umano. I Baci, a fine rassegna, colgono precisamente questo aspetto. Non si nota altro che l”incontro di due amanti. Ci sono solo loro due a Parigi nel ’54, sulla spiaggia di Malamocco nel ’58 o per le strade di Milano nel 2012. Il mondo intorno non esiste e l’occhio del fotografo è quello di un romantico osservatore che coglie l’estasi dell’amore in quanto tale, «il momento decisivo» lo definisce. Il non celato riferimento è alla scuola francese, al Bacio davanti all’hotel De Ville di Robert Doisneau, che Berengo Gardin conobbe personalmente a Parigi dove visse per due anni.
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Nel bacio di Milano, 2012, la curiosità è tecnica: quella è l’unica foto scattata in digitale da un autore che ha giurato amore eterno alla pellicola. Mezzo insuperabile per la resa del bianco e nero.
E l’impressione che resta è proprio quella di una grandezza che parte dalla rinuncia al colore. Perché senza riferimenti cromatici gli uomini sembrano essere sempre uguali. Il dolore è uguale, le rughe invecchiano la carne oggi come un tempo. Le pose plastiche e ridicole dei bambini che giocano al parco sono una storia comune. Il Dna dell’umanità. Senza colore una processione religiosa nella Francia del 1974 non è poi tanto diversa da quella di Corigliano Calabro nel 2003.
C’è questo di grandioso negli scatti di Berengo Gardin: la sensazione di vivere in un viaggio senza tempo e senza spazio in cui l’unica cosa che conta è la memoria dell’uomo. Del suo vissuto e del suo vivere. Dell’impronta che le sue azioni, la sua pelle, i suoi patimenti, le sue ironie, i suoi sorrisi, le sue glorie e le sue tragedie, lasciano oltre il diaframma.