Massimiliano Hütschenreuther ha quarantatré anni. Suo figlio Giacomo, otto.
Uno dei due fa il cameriere in una pizzeria, l’altro la terza elementare.
Abitano a sei chilometri di distanza, in due quartieri opposti della stessa città.
Questa è la storia di come stanno diventando grandi insieme, un giovedì dopo l’altro.
“Il Giovedì” è un’opera di finzione letteraria: qualsiasi riferimento a persone ed eventi realmente esistenti è da considerarsi un’incredibile sfortunata coincidenza.
Sono tre ed entrano senza salutare; non chiedono dove possono mettersi ma vanno dritti a un tavolo da sei e ci si installano, sparpagliando le proprie cose ovunque, sul tavolo sulle sedie per terra.
Io ho il raffreddore, probabilmente l’influenza: sudo più del consentito e mi cola il naso, tossisco a brevi raffiche sempre più ravvicinate, che nascondo e sfogo come posso nel tovagliolo da sala, dietro una colonna, nel corridoio antibagno. Non protesto, quindi, per quell’invasione, non discuto non obietto non devio il loro percorso: che si mettano dove gli pare. Mentre mi sfilano accanto però dico Buongiornosignori, anche se lui non mi sente, lei non mi vede, il bambino mi punta in faccia la pistola di plastica.
Sono tutte uguali queste tragiche giovani famiglie del finto benessere ignorante italiano. Stampate da una matrice che andava buttata vent’anni fa, paiono appena sfornate da una fabbrica cinese, e invece sono tragicamente nostrane. Vengono in questa stramaledetta pizzeria di second’ordine perché è risparmiando sul cibo, cenando in posti come questo facendo la spesa nei discount ingozzandosi di sushi cinese all-you-can-eat, che riescono a permettersi le rate della macchina con le ruote grosse o le vacanze all inclusive in un resort finto e blindato.
Con somma inutilità del gesto porto i menu, che loro agguantano senza un grazie un cenno un vaffanculo. Io del resto, anche se è la prima volta che li vedo, so già cosa ordineranno. Lui prenderà una diavola molto piccante per sentirsi vivo maschio guerriero, lei una margherita senza mozzarella per sentirsi sana dispensata virtuosa, il bambino chiederà qualcosa -qualsiasi cosa- da poter abbandonare per tre quarti nel piatto sulla tovaglia sul pavimento.
Non sono nato cameriere, ho dovuto diventarlo improvvisamente per pagare il mantenimento di Giacomo e l’affitto del bilocale. Prima recensivo romanzi bellissimi illeggibili inutili famosi spacciati e scrivevo articoli lunghi lenti che nessuno aveva voglia e tempo di leggere, e che i giornali a un certo punto hanno smesso di commissionarmi. Non un refuso, non un errore, un amore per le parole che andava oltre il disprezzo per questo paese alla deriva che non legge oltre il titolo, arriva alla decima riga se sei fortunato. Tutto inutile. L’ignoranza italiana è montata sul cavallo pazzo del Web distruggendo il mio lavoro. I boxini laterali con i gattini e i topless televisivi, la fretta, la superficie piatta che si espande, la performance con l’accento sbagliato: tutto pane moscio per i denti marci di gente come questa che mi siede davanti ogni sera. Prova anche solo a citarglieli Genna, Celati, Morselli, Coccioli, Zanzotto, Magrelli: ti ride in faccia quest’Italia che frana e non sa di franare perché non legge più.
Così adesso servo ai tavoli spezzandomi i piedi e i polpacci. Eppure resisto, rimango efficiente, emano cortesia e simulo grazia, resto al margine della sala pronto e reattivo: adesso io sono un Cameriere. E mi avvicino zitto muto silenzioso al tavolo di questi tre detestabli esseri. Gente che davanti a un Rothko direbbe Questo so farlo anch’io. Che rallenta per vedere meglio i morti in autostrada. Che venderebbe la madre per essere VIP ma intanto si accontenta di esserne il downgrade del downgrade del downgrade e fa la fila fuori dalla discoteca inaccessibile famosa per fotografare qualcuno, chiunque, basta che non sia un nessuno come loro. E dentro di me penso: meglio la mia famiglia scomparsa disgregata distrutta che questo minicirco di bifolchi.
Dopo essermi soffiato il naso due volte prendo la comanda, e loro scelgono esattamente quello che avevo previsto. E quando si passa alle bevande, lei ovviamente ordina un’acqua naturale, il bambino una Fanta, no anzi una Sprite, no una gazzosa, no un succo di pera, amo non vuoi una Coca Zero? no dai prendi una Fanta, e poi a me: Oh, ma non di frigo, eh! Lui prende una Corona, e mentre m’allontano Oh, col limone, eh! mi urla alle spalle. Gli piace chiamarmi “Oh” a queste bestie.
Torno dopo un minuto e, mentre appoggio i bicchieri sul tavolo, lui, che in quel momento è in piedi e si sta togliendo la maglia costosa firmata attillata con un logo che copre quasi metà del busto, mi urta il vassoio. Un paio di gocce cadono sulla sua sedia e lui prende d’istinto il tovagliolo (è evidente che a casa funziona così) e fa per asciugare. Ma lei lo fulmina, lei dice ad alta voce indicandomi: Oh, cazzoffai? È lui che deve pulire, oh, è il cameriere, minchia. Oh, minchia mollami, risponde lui, che però smette di tamponare. Si chiamano “Oh” anche tra loro, queste bestie che hanno sempre la minchia in bocca anche davanti ai bambini.
Così asciugo io la sedia, e lui ovviamente si risiede senza aspettare che io abbia finito e la prima cosa che fa da seduto è spingere la fetta di limone dentro il collo della bottiglia finché non galleggia nella birra. Rabbrividisco. Lui crede che il limone sia un dettaglio cool (ma lui non pensa e non dice “cool”, altrimenti, oh, i suoi colleghi poi, minchia, magari pensano che è ricchione, oh), lui ignora che il limone gli operai messicani lo appoggiavano al bordo per tener lontano gli scarafaggi dalle bottiglie di Corona aperte sui cantieri. Il mondo idiota ha importato quel gesto e lo ha reso senza storia; a quel punto lui lo ha adottato felice e bovino. Minchia, oh.
Lo guardo da vicino mentre asciugo la sedia: è evidente che avrebbe voluto essere un calciatore, è altrettanto evidente che non lo è, altrimenti non mangerebbe qui. Avrà trent’anni e ha l’anno di nascita tatuato in numeri romani su un avambraccio, e una parola illeggibile in lettere gotiche tutte maiuscole sull’altro. AXEL mi pare ci sia scritto: il nome del suo cane di suo figlio di qualche attaccante che ignoro. Sono le nove di sera e porta gli occhiali da sole. Da sotto le lenti emergono sopracciglia depilate da tronista o sbirro antisommossa.
Quando mi allontano, lei nemmeno troppo sottovoce gli dice: Oh, minchia, che pena mi fanno i camerieri vecchi. Tossisco tossisco tossisco. Stronza, io non sono vecchio: io ho quarantatré anni, e i capelli grigi me li sono scoperti all’improvviso una mattina nello specchio del mio bilocale di periferia. Era la prima notte che ci dormivo, avevo trentotto anni, ero giovane e vivo e il mio piccolo bambino biondo gentile mi mancava da morire. Tossisco, la rabbia mi peggiora la febbre, tiro su col naso, tossisco tossisco, la odio.
Porto le pizze e porgo i piatti da destra come impone il servizio sur assiette all’italiana semplice, una finezza da galateo alberghiero che non meritano e infatti nemmeno registrano. Minchia era ora, bofonchia lui. Il tempo di attesa è stato un record di sette minuti, eppure tre minuti prima lei l’ho sentita sbuffare Oh, ma quanto cazzo ci mette questo? contro di me. Come se fossi io il pizzaiolo. Come se anche qui cucinassimo col microonde come fa lei a casa sua.
Oh già, lei: lei è brutta sia sopra che sotto il trucco curatissimo, è totalmente priva di gioia di grazia di femminilità naturale, e da come parla reagisce si muove è evidente che -come impone lo Zeitgeist dei social network- si autostima da morire. Sono certo che ogni giorno condivide aforismi assertivi sentenzia sull’amore pubblica foto softcore in bianco e nero in cui è certa di riconoscersi, e che scrive fà, e quì, e và, e pò, e quando vuol esser spiritosa chiude i suoi rozzi pensieri con sapevatelo. Ha unghie lunghe verdi marmorizzate e un orribile tribale da catalogo tatuato sopra il culo, la cui grassa fessura sudata straborda da sotto l’etichetta del perizoma che le sguscia fuori dai jeans semicorti firmati. Parla senza sosta di “quella stronza della Giusy”. Tiene sempre il cellulare nella mano sinistra, anche mentre mangia, col pollice preme un tasto ogni trenta secondi per vedere se il display segnala un messaggio una notifica push una chiamata persa. Si veste come si vestono le femmine che piacciono ai maschi come il suo: da cubista licenziata per sopraggiunta gravidanza.
Mangiano, adesso. In silenzio. Masticano a bocca aperta. Non si dicono niente. Lui ha aggiunto dell’olio piccante, lei ha sfrondato il bordo della pizza. Mangiano tenendo la bocca zitta e spalancata. Guardano i telefonini, guardano i piatti, guardano i telefonini, guardano i piatti. Solo il bambino emette dei suoni. Tocca la pizza ma non la mangia. Fa dei versi mentre la ruota nel piatto. La solleva, la fa cadere. Eppure non è un neonato; avrà quattro anni. È solo un bambino ignorato viziato che non ha rispetto per il cibo.
Non salvo nemmeno lui, il prodotto dei suoi mostruosi genitori. Ora corre tra i tavoli sputacchiando urlando puntando la sua pistola di plastica del cazzo in faccia agli altri clienti. La sua pizza giace intera nel piatto e i suoi genitori lo ignorano, guardano i telefonini, guardano i piatti, tacciono, masticano, guardano i telefonini, guardano i telefonini.
Passano dieci minuti e finalmente la madre lo chiama. Oh, stai a tavola Axel, minchia. Lui ovviamente non risponde non obbedisce non smette di rompere i coglioni a tutta la sala. Ogni tanto io lo fisso con sguardo severo, ma lui m’ignora con grande mestiere. Solo quando urta il carrello dei dolci e fa cadere le pinze i cucchiai una coppa di ferro, lei si alza lo prende per un braccio e gli dice: Oh, minchia, adesso basta sennò il cameriere brutto ti porta via. Il cameriere brutto, dice. Come un cagnetto di Pavlov pronto e schiumante, il piccolo mostro Axel mi punta da lontano, si svincola dalla stretta molle della donna molle, mi si avvicina e mi colpisce con la pistola di plastica in pancia. Il colpo e la sorpresa mi provocano un attacco di tosse che non controllo. Tossisco come un asino bastonato in salita. Tossisco tossisco tossisco, fino a lacrimare. La madre ride, il padre ride, il bambino ride.
Quando tutti e tre ordinano il dolce, il Cameriere Brutto Vecchio e Cattivo glielo farcisce con il virus dell’influenza sotto forma di sputo tra la panna e il gelato.
Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò.