Racconto della scoperta dell’altro, nell’anima del Kurdistan iracheno, tra stupore e confronto
di Iacopo Luzi
Quando dissi a mio padre che sarei partito per l’Iraq da lì a poco tempo, mi prese subito per pazzo. Completamente fuori di testa.
Non riusciva a concepire il perché volessi azzardare un viaggio così difficile, all’apparenza così pericoloso. In fondo, si trattava pur sempre di Iraq, non di una semplice vacanza in chissà quale città europea. Inoltre, non avevo mai avuto esperienza nel mondo del giornalismo, non avevo mai intervistato nessuno in vita mia e figuriamoci se sapevo come si maneggiasse una fotocamera. Quindi che senso aveva la cosa?
Eppure da sempre sognavo di provare, anche per poco, questo mestiere, assaporarne il significato, direttamente sul campo, alla ricerca di una notizia in un posto dove non molta gente della mia età era stata finora. Volevo partire dall’estremo, senza mezze misure.
Credo che siano state queste le motivazioni che mi spinsero a partire. In un viaggio a Istanbul avevo conosciuto, per puro caso, una ragazza irachena che mi aveva invitato a farle visita un giorno nel suo paese, ad Erbil (capoluogo della regione autonoma del Kurdistan iracheno), nel nord dell’Iraq. Accettai l’invito.
Mi avevano stuzzicato i suoi racconti e le sue storie: immaginate la mia incredulità e scetticismo, ascoltando questa ragazza che mi parlava della sua città, di come non ci fossero attentati lì e di come la gente vivesse tranquillamente, senza alcuna paura.
Io non ci credevo e volevo vedere con i miei occhi, ma aveva ragione. Mi dovetti ricredere. Atterrato a Erbil, dopo un lungo volo e una notte passata nello scalo di Dubai (per risparmiare soldi), arrivai all’aeroporto colmo di paure e incertezze. Ero veramente lì, in Iraq, direttamente dalle parole ai fatti. O, chissà, magari dalla padella alla brace. Figuriamoci poi in Italia, dove amici e parenti mi avevano messo in guardia su tutto, facendo salire l’ansia a livelli spasmodici. Ma quello che scoprii, cambiò tutto il modo di vedere le cose rispetto a quando ero in Italia.
Erbil e, in generale, il Kurdistan iracheno è un mondo strano, diverso, parallelo, a cavallo fra un passato fatto di tradizioni e un futuro rivolto verso la globalizzazione. Immaginate una popolazione come quella dei curdi, perseguitati per decenni fino all’inverosimile dalla dittatura di Saddam Hussein, finalmente liberi e padroni del proprio destino.
Un destino dal colore del petrolio che ha trasformato una regione devastata dalla guerra e dal governo dittatoriale di Baghdad in un oasi di benessere e, per quanto solo apparente, normalità. Un tè alla mela preso in compagnia di amici nel quartiere cristiano di Ankawa, una cena a base di pollo con riso nello scintillante e molto occidentale centro commerciale “Family hall”, una serata in compagnia di anziani, fumando Narghilè, nella Qalla (la piazza centrale della città, sotto l’antica Cittadella) bastano per capire come le cose stiano cambiando a una velocità incredibile da queste parti.
Sembrano delle sciocchezze, delle cose normalissime per chiunque, eppure da queste parti, solamente sette anni fa, nulla di tutto ciò sarebbe stato anche solo lontanamente pensabile. Lo chiamano boom economico o crescita sociale e intervistando giornalisti, professori dell’università locale o semplici imprenditori, tutti confermano orgogliosamente questa parola, con sorrisi e speranze verso il proprio futuro.
In Italia non ero più abituato a vedere volti così. Girando per le strade e respirando la pesante aria odorante di catrame e gomma bruciata, segno delle migliaia di palazzine e case in costruzione, è facile intuire come sia grande la voglia di andare avanti e lasciarsi alle spalle tutta la sofferenza e i soprusi di anni e anni vissuti come emarginati.
Fino alla caduta di Saddam Hussein per mano americana nel 2003, chiunque potesse se ne andava via, chi non poteva era costretto a rimanere. E nessuno di quelli che riuscivano a scappare clandestinamente attraverso il confine turco, senza lasciarci la pelle, tornava indietro. Oggi accade il contrario.
Negli ultimi anni un gran numero di curdi scappati in ogni parte del mondo sono tornati a casa, nel Kurdistan iracheno, per iniziare una nuova vita, o, semplicemente, per ricominciare da dove avevano abbandonato quella precedente.
Eppure non è tutto oro quello che luccica. Questa terra, queste persone, stanno cavalcando l’ascesa di una regione che vorrebbe con tutta se stessa emanciparsi e distaccarsi dall’Iraq, eppure questo vincolo sembra, al contrario, più indissolubile che mai e fonte di grandi problemi. I contrasti con il governo centrale di Baghdad vanno dagli introiti derivanti dalla vendita del petrolio fino alla delimitazione dei propri confini e, nonostante il premier iracheno sia un curdo, i rapporti continuano a essere tesi.
A tal punto che le frontiere della regione curda sono presiedute dai Peshmerga (gli ex guerriglieri curdi che adesso formano l’esercito ufficiale) e, all’ingresso di ogni città, numerosi check-point e controlli di sicurezza impediscono a qualsiasi persona sospetta o poco gradita di entrare nella regione. Nessun mezzo termine: o i documenti sono validi oppure si resta fuori.
Durante il mio viaggio attraverso il Kurdistan, ho potuto vedere e scoprire molte cose ma non dimenticherò facilmente due episodi che, in qualche modo, sono rimasti indelebili dentro di me: una sera, mentre ero in hotel, sento dei colpi di mitra provenire da non molto lontano il posto in cui ero.
Immaginate la paura del sottoscritto….Temendo il peggio, passo la notte in bianco, per poi scoprire, la mattina dopo, che i colpi erano stati causati da uno scontro a fuoco fra la polizia curda e dei rapinatori siriani, chissà magari dei semplici profughi provenienti dal paese limitrofe.
Domando il perché di una simile sparatoria, addirittura in piena città, e la risposta dell’ albergatore arriva subito, lasciandomi di stucco: “Qui prima si agisce e poi si fanno le domande. Funziona così. Nessun dubbio. Sarebbe troppo pericoloso permettere che si diffonda la microcriminalità in questa regione”.
Viceversa, il secondo episodio è molto più personale. Dovevo intervistare una signora italiana, Angela Bizzaro, che gestisce il Museo Mesopotamico di Sulaymaniyah, una città a confine con l’Iran, e, per arrivare lì, le possibilità erano solo due: passare per un sentiero di montagna o utilizzare l’autostrada che attraversa Kirkuk, la città di confine con lo Stato Iracheno.
Il giorno prima era esplosa un’autovettura di fronte la moschea principale del centro storico, in quanto la città è luogo di conflitto fra curdi e iracheni e gli attentati di estremisti sono, purtroppo, frequenti. La cosa però non mi importava molto (beata incoscienza) quindi decisi lo stesso di optare per la seconda ipotesi (la via più rapida). Non avevo tempo da perdere.
Arrivati a Kirkuk, scopro che l’autostrada costeggia la città e che un ponte rialzato permette di osservare il paesaggio dall’alto: sono momenti di tensione, più che altro, mi colpisce molto pensare che tra quelle case, in quelle strade, ogni giorno la vita e la morte si incrociano.
Vedere quella zona di confine e di conflitti così da vicino, eppure da così lontano. Una sensazione strana, quasi surreale. Il driver della mia vettura, un curdo emigrato in Italia e poi tornato dopo la caduta di Saddam, mi aveva garantito che il viaggio sarebbe stato sicuro, eppure nessuno poteva prevedere un piccolo dettaglio. Durante il tragitto, sconfinai in territorio iracheno senza accorgermene….. e senza visto iracheno. Ovviamente in questi casi, basta un attimo perché le cose si mettano male e a un check-point fuori Kirkuk, la mia macchina viene fermata e controllata. Non sono in regola e il mio passaporto viene dichiarato illegale per mancanza di visto.
Ovvero: dovevo essere scortato fino alla stazione di polizia, nel centro della città, per i dovuti controlli e quasi certamente per un probabile fermo. Le cose non si stavano mettendo bene. Poi il mio driver, con un colpo di genio o, forse, di follia, parla con il poliziotto e gli sussurra in curdo Sarchaw (che tradotto significa “Sui miei occhi”), il saluto dei curdi. Non so poi cosa successe veramente, ma dopo dieci minuti passati con i rivoli di sudore freddo che mi scorrevano lungo la schiena, alla fine, vengo lasciato libero.
Domando al driver cosa si fossero detti, ma lui mi liquida, con un discreto aplomb, rispondendo: “Semplice: gli ho detto che eri un famoso giornalista italiano e che dovevi recarti a Sulaymaniyah per intervistare la moglie del presidente iracheno, Jalal Talabani”.
Lo guardo a metà fra lo sconvolto e l’incredulo, eppure gli sono grato: senza il suo provvidenziale intervento, mi sarei sicuramente cacciato in un bel guaio….
Il fatto è che il Kurdistan iracheno è un paese che sta cambiando, crescendo, si sta aprendo al turismo e culla il sogno di diventare una nuova Dubai, prima o poi. Di conseguenza, i turisti vengono trattati con un occhio di riguardo. Se fossi stato un cittadino qualsiasi, non credo che avrei subito lo stesso trattamento. Il viaggio prosegue fra interviste a imprenditori e figure istituzionali e me la cavo, nonostante il mio impaccio, il frequente improvvisare durante le interviste e i timori nel formulare le domande che mi servivano agli intervistati.
In tutto ciò, il telefono squilla di continuo: è mio padre che. nonostante le rassicurazioni e il fatto che gli abbia detto che qui sia molto più sicuro che in Italia, vuole sentirmi minimo tre volte al giorno per sapere come sto. La scheda telefonica è italiana. Non oso immaginare il conto, quando tornerò. Ovunque io vada, vengo accolto con gentilezza e spontaneità, tanto che intervistando un giornalista del Kurdistan News, chiedo quanto gli dovessi per l’intervista, ma lui mi blocca, affermando: “Non voglio nulla, mi basta solo sapere che parlerai bene di noi e del Kurdistan. E’ questo ciò che importa..”
Purtroppo è impossibile descrivere tutto ciò che ho potuto vedere e provare durante il mio viaggio in Kurdistan, tuttavia le sensazioni provate, la gentilezza della mia amica nell’accompagnarmi ovunque, gli stessi italiani che vivono ad Erbil (in prevalenza imprenditori italiani alla ricerca di fortuna, attratti dal boom economico) mi hanno fatto sentire come se fossi stato uno loro, come una persona che stesse condividendo con loro lo stesso destino.
In fondo, data la giovane età, per loro doveva sembrare molto strano che, un ragazzo come me, fosse tutto solo in giro da quelle parti o, forse, perché nasce una sorta di complicità e alleanza fra quelle poche persone che decidono di avventurarsi in Kurdistan. Tuttavia solo così ho avuto modo di conoscere questa regione, terra di Sumeri, Assiri, Babilonesi, Persiani e Ottomani, e poter comprendere il loro spirito. Il desiderio di rinascita.
Se avessi scelto diversamente, non so se sarei riuscito a vedere e vivere le cose nella stessa maniera. Tanto che, partendo, Parwez Zabihi, un consulente curdo per un agenzia di consulenza, mi salutò all’aeroporto, dicendomi: “C’è un detto curdo che dice: quando vieni la prima volta in Kurdistan, l’energia e la passione di questa terra ti spinge, poi, a ritornare nuovamente. E tu tornerai, credimi”.