Il senso della mia vita

“Basta. Io mollo tutto e vado a vivere in una favela”. Questa è la storia di due persone che hanno fatto una scelta simile. Marco Lo Iodice e poi Barbara Olivi, entrambi di buona famiglia, con un impiego a tempo indeterminato, un buono stipendio, una bella vita, amici, cene, feste, auto, viaggi, amori. Eppure infelici. Insoddisfatti. Irrequieti.

di Stefania Culurgioni, foto Mariangela Marseglia

Prendete il film Matrix e al posto di Neo metteteci un ragazzo milanese di 34 anni. Si alza regolare ogni mattina, si fa la barba e si mette sufficientemente elegante per andare al lavoro. Prende i mezzi, va in ufficio, si siede al computer ed esce otto ore dopo. Tutto a posto, vita regolare, nessuna sbavatura. Amici, fidanzate, bei film al cinema, buone letture, una casa di proprietà. Fuori normale eppure, dentro, una fastidiosa sensazione difficile da spiegare. Come di quando senti che c’è qualcosa che non va, che qualcosa ti sfugge di mano, che quello che ti circonda non è esattamente la tua verità. Poi una mattina quel ragazzo apre gli occhi (come Neo al suono della sveglia) e quel disagio sottile che lo punge da anni gli diventa più chiaro. “Credi sia aria quella che respiri ora?” chiedeva Morpheus a Keanu Reeves. “E’ vita vera quella che sto vivendo?”, si è chiesto Marco. Si è tirato su dal letto, è andato allo specchio e si è dato una risposta: “Basta. Io mollo tutto e vado a vivere in una favela”.

[blockquote align=”none”]Questa è la storia di due persone che hanno fatto una scelta simile. Marco Lo Iodice e poi Barbara Olivi, entrambi di buona famiglia, con un impiego a tempo indeterminato, un buono stipendio, una bella vita, amici, cene, feste, auto, viaggi, amori. Eppure infelici. Insoddisfatti. Irrequieti. Questa è la storia di due persone diverse che hanno mollato tutto per andare a vivere dentro la povertà. Nell’angolo di mondo più distante possibile da casa loro, dove non ci sono comodità né certezze sul futuro, ma c’è la vita, una vita che sentono più vera, e dove il cuore si sente a casa, e tutto quanto sembra avere più senso.[/blockquote]

[new_royalslider id=”46″]

Marco Lo Iodice

Secondo una stima dell’Istat, ci sono 1milione 286mila under 35 alla ricerca di un’occupazione. Il numero però è in aumento, perché sempre meno ragazzi riescono a trovare un lavoro, e quelli che ce l’hanno restano sempre più facilmente senza. Praticamente, un esercito. La disoccupazione giovanile inizia a fare davvero paura, il quadro dipinto dall’istituto di ricerca è angosciante. Chi poi un lavoro lo trova, deve convivere con un senso costante di insicurezza, perché i contratti sono precari e prima o poi anche il suo scadrà. Quando Marco ha annunciato che si sarebbe licenziato, proprio lui, che aveva un posto a tempo indeterminato a Mediaset dove lavorava come consulente dei servizi informatici, per dire che andava a vivere in una favela, chi gli stava di fronte ha sgranato gli occhi. Se l’è voluto sentire ripetere almeno due volte. “Ti licenzi? Vai a vivere in una favela? Ma perché? Cos’è che non va, qui?”.

Nato a Taranto, 34 anni, laureato in ingegneria elettronica, prima project manager ad Accenture, da tre anni a Mediaset. Stipendio base: 2200 euro, 14 mensilità. Una casa a Milano compratagli dal padre, 16mila euro nel conto corrente. “Eppure – racconta – la vita che stavo vivendo, la vita nella quale mi stavo proiettando non era quella che mi assomigliava. Lavoravo 8 ore al giorno, dal lunedì al venerdì, ma ad un certo punto mi sono chiesto perché. Perché lavoro a Mediaset e non ho neanche la televisione? Mi ritrovato a dedicarmi al mio lavoro con la passione di voler fare le cose bene e di volermi meritare lo stipendio per il quale ero pagato, ma non credevo fino in fondo a quello che facevo. E poi era anche un fatto di quotidianeità: mi ero stancato di dovermi recare sempre nello stesso luogo, in un ufficio con le luci al neon, con le pareti di compensato grigio, con la macchinetta e le bevande al gusto di caffé, rispettando orari determinati dal contratto e dalle necessità produttive dell’azienda, ma non di certo dal ritmo naturale della mia vita. Io volevo almeno fare un tentativo. Cercare qualcosa che mi assomigliasse di più nel profondo. E quindi, mi sono licenziato”.

La decisione l’ha presa quando ha conosciuto il fratello di Barbara Olivi (la sua storia di seguito) che gli ha parlato della sorella e dell’associazione Il Sorriso dei Miei Bimbi. Tredici ore di volo da Milano, vita completamente diversa. Dentro la favela Rocinha, coi bimbi abbandonati per strada, dove non esiste la fognatura e l’energia elettrica è ricavata da rocchetti attaccati alla fornitura cittadina (i rocchetti di solito si staccano ad ogni temporale e diventano fruste infuocate sull’asfalto bagnato). In un quartiere di Rio de Janeiro dove fino all’anno scorso ha dettato legge il narcotraffico e che ora pullula di poliziotti arrabbiati. “Mi sono fatto due conti: con quei 16mila euro in banca ci potevo vivere almeno un anno, e così sono partito racconta – Per una volta mi sono detto: non pensare al futuro. Dedicati totalmente al volontariato, prova a ritrovare te stesso”. Quando lo incontriamo indossa delle Hawaianas bianche, calzoncini corti e maglietta bianca. Facciamo insieme il viaggio fino a Rocinha su un furgoncino carico di 12 casse di libri, una donazione fatta al Sorriso dei Miei Bimbi. “La cosa più difficile al primo impatto, quando si passa da Milano a una favela, è la mancanza d’acqua potabile – dice – Ti ci puoi lavare, magari ti ci spazzoli i denti per farti qualche anticorpo, ma niente di più. Per bere, devi trasportarti bidoni da 27 litri su per la collina. E per le stradine della favela si gira a piedi, in ciabatte, e i bagni delle case e dei bar te li devi fare andare bene. Quando piove è un disastro: il canale d’acqua che scende dalla collina è una fogna a cielo aperto. Ci buttano dentro di tutto, oltre agli scarichi dei water, e quando esonda ti ritrovi nei liquami”. Eppure. Il tempo sembra meno sprecato, la vita sembra più vita. Lontano dalla città che spersonalizza, omologa, soffoca, lontano dalla fretta che fa invecchiare, dall’ansia di futuro che stringe il petto, dalla sensazione di un Paese che barcolla, in mezzo ad un popolo che sa vivere di presente, godere delle piccole e pochissime cose e adeguarsi a non possedere nulla, ogni cosa sembra risplendere più preziosa. E anche Marco ha trovato un senso di sé.

brasile_2012_web_LR-9

 

Barbara Olivi

Prendete il film “Tropa de Elite, gli squadroni della morte” (Orso d’oro a Berlino nel 2008) e al posto della giovane volontaria della Ong metteteci una signora milanese, reggiana di origine, di 40 anni. C’è una festa nella favela, e decine di giovani che ballano raggae brasileiro fumando canne e tirando coca. Quasi tutti hanno in spalla un fucile, bevono e ballano, ballano e fumano. La musica è alta, c’è confusione, in un angolino un bambino di cinque anni gioca con una pistola (finta?) e intorno a lui quattro o cinque adulti lo prendono in giro. Gli fanno vedere come si imbraccia, come si punta, come si spara. Barbara passa per il vicolo e lo nota. Di chi è quel bambino? Dov’è la sua mamma? Barbara è a Rocinha da poco, ha appena aperto con suo marito Julio una scuola per i bambini di strada, è il 1998. Passa di lì, fa due o tre domande,   tiene a mente il nome del piccolo, lo farà diventare uno dei suoi allievi provando a strappargli dagli occhi quei cattivi esempi.  Figlia di un ingegnere dell’Eni, un bell’appartamento a San Donato Milanese, ampio, luminoso, in un complesso residenziale circondato da viali alberati, marciapiedi puliti, strade poco trafficate, signore in bicicletta, quiete e sicurezza. Un ottimo lavoro come piccola imprenditrice di un’attività di relocation nell’hinterland milanese per compagnie internazionali legate al petrolio. Guadagno netto al mese di qualche migliaio di euro, due moto, viaggi lunghi, esotici, affascinanti. Che ti manca? Direbbe uno. Eppure anche lei, come Marco, si sveglia ogni mattina con quel sapore in bocca, di qualcosa che non torna, di una vita fluida che passa in superficie e non scava, non entra, non lascia il segno.

“E’ successo dieci anni fa, in uno dei miei viaggi – racconta – sono andata a Rio de Janeiro e dalla finestra dell’hotel guardavo quelle lucine in lontananza sulla collina. Pensavo: toh, ecco la favela. E sentivo un richiamo, una spinta ad entrarci”. Quando lo ha fatto, girato un angolo, ha visto in uno slargo un uomo che montava un palco per un concertino. Era Julio e sarebbe diventato suo marito. Vai a saperlo perché ti innamori di qualcuno, se è per lui, o perché innamorartene ti aiuta a fare il salto. “Sta di fatto che ho abbandonato la mia attività, e sono venuta a vivere qui”. Il Sorriso dei miei bimbi è il nome che ha dato alla sua associazione. Si paga da vivere facendo la guida turistica e mantiene la scuola per i bimbi di strada grazie a donazioni e sovvenzioni del governo. “Ma certamente non è stato facile – racconta – ho sofferto, all’inizio, perché mancava l’acqua e la luce, perché ogni respiro, in estate, era un bagno di sudore, perché durante gli acquazzoni tropicali la strada diventava un fiume di fogna, perché mi venivano i foruncoli a causa della poca igiene e delle mie difese immunitarie basse, e persino i vermi all’intestino. Ho sofferto perché mi mancavano le chiacchiere con mia madre, le brioches e il cappuccino al mattino, perché ho dovuto vendere le mie moto, perché ho smesso di avere uno stipendio fisso, perché per un periodo mi sono dovuta obbligare a non guardare le vetrine, perché non avevo soldi per fare acquisti. Per la mentalità che abbiamo noi è difficile accettare di non avere un’entrata economica fissa, di avere un futuro precario. Invece poi ti abitui a pensarla come i brasiliani.. un giorno alla volta, godendo di ogni piccola cosa proprio mentre ti accade”. Oggi Barbara ha imparato a vivere senza niente, “ma sono diventata più ricca di prima”. Come il nome della sua associazione, c’è quel sorriso di bambino che ti apre mondi. C’è che nella favela, a dispetto del destino, dell’emarginazione, dello sfruttamento, a dispetto di quella differenza di destini che mette gli eletti da una parte e i diseredati dall’altra, la vita alla fine continua a vincere su tutto, anche sulla morte, e lo fa a qualunque costo.



Lascia un commento