Dei delitti e delle pene

Luigi Bonaventura, collaboratore di giustizia dal 2007. Riflessione su un sistema nel sistema dell’Italia, malata di mafia

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Foto_Bagnoli-Lorenzo.jpg[/author_image] [author_info]di Lorenzo Bagnoli. Freelance con la passione per le inchieste. Scrive soprattutto di mafia, di immigrazione e di altre sciocchezze. Ha lavorato con E il mensile e Peacereporter, oggi collabora con Redattore sociale, Terre di mezzo, Linkiesta, Lettera43 e Q code mag. Ha trovato casa all’Irpi, il centro italiano per il giornalismo investigativo.[/author_info] [/author]

Non basta il sequestro dei beni. Serve il sequestro degli uomini. “Ma i pentiti fanno più paura ai politici che ai mafiosi, per questo se ne occupano poco. Il pesce comincia a puzzare dalla testa”. E il pesce è il nostro Paese, ammorbato dalle mafie. Parola di Luigi Bonaventura, collaboratore di giustizia dal 2007.

Ne parla da interessato, da interno. Mentre la politica approva a fatica la riforma dell’articolo 416 ter, il reato sullo scambio elettorale politico mafioso, sotto la spinta di 270mila firmatari della campagna promossa da Libera Riparte il futuro, Luigi Bonaventura lancia un appello. E chiede di non lasciare soli i pentiti. Sa che la sua è una voce interessata, interna. E le sue parole sono costantemente al vaglio degli inquirenti e dell’opinione pubblica: “I fatti devono parlare per me. Non mi assolvo per quanto ho fatto: ci sono nato mafioso. Ora voglio essere un buon esempio, un esempio positivo”. È talmente deciso della sua scelta di dissociarsi che vorrebbe diventare uno smacco per i boss della ‘ndrangheta. “Vorrei poter dire a tutti ‘hai visto come migliora la vita a collaborare?’. Invece credo che nessuno mi abbia fatto fuori proprio per dimostrare il contrario: che la vita fuori dalla ‘ndrangheta è impossibile”.

mafia1

Angela (nome di fantasia) ha conosciuto il boss di ‘ndrangheta Luigi Bonaventura, quando aveva 13 anni. È stato il suo primo fidanzatino. Da allora si sono lasciati e poi rimessi insieme almeno quattro volte. Angela e la sua famiglia con la ‘ndrangheta non ha mai avuto niente a che fare. “Di Luigi sapevo che in casa sua si respirava un’aria mafiosa, ma nulla di più. Con mia suocera poi c’era un ottimo rapporto”, ricorda.

Diverse questioni che riguardavano suo marito passavano sotto silenzio. Non ne poteva parlare, nemmeno con la moglie, soprattutto perché sempre cresciuta al di fuori dell’organizzazione. Luigi Bonaventura aveva 30 anni quando è stato nominato reggente della cosca dei Vrenna Bonaventura. Da sei anni era sposato con Angela e da poco era nato il suo primogenito. È allora che ha deciso di parlare, di raccontare fino in fondo la sua storia di mafia, di “bambino soldato”, come si definisce lui, cresciuto imbracciando un fucile e con l’imperativo di ammazzare. Sua madre e sua moglie, in quegli anni, così racconta Bonaventura, hanno stretto un’alleanza che convinto Bonaventura a cambiare casacca e scegliere lo Stato.

Per quanto le procure lo ritengano ancora un testimone affidabile (“l’ultimo a dirlo è stato il procuratore Pignatone”, ricorda Bonaventura) da un anno e mezzo il Sistema di protezione non rinnova il suo accordo. Non ha mai avuto la scorte e vive in una terra al confine tra Puglia e Calabria. Tanto che ha persino detto di voler rinunciare “tanto così non è sicuro”. Attende da mesi un trasferimento lontano da Termoli, in una località più sicura. Da Roma prendono tempo. “Dare un segnale invece potrebbe voler dire destabilizzare la ‘ndrangheta, far capire che c’è una vita anche al di fuori del sistema”. E il segnale non arriva. Né per la vita dei pentiti, né per il voto di scambio, il traffico di influenze e la corruzione.

“Vorrei poter ricominciare una vita normale, guadagnarmi il pane e poter giustificare il modo in cui lo faccio, senza che chi mi sta intorno si faccia troppe domande. Le persone che avevano delle incertezze su di noi, ora hanno la certezza che siamo una famiglia strana”. Sono le speranze di Angela. Desidera poter avere una nuova identità, che non cambi a seconda delle regioni d’Italia dove si trova. “Avevo messo in conto – confessa – di vivere con l’angoscia ed esser scoperti e fatti fuori. Però adesso non c’è solo questa. Temo anche che qualche parte deviata dello Stato possa volerci eliminare”.



Lascia un commento