Iraq, il paese delle ombre

La situazione nel paese è come sospesa, tra violenza e un futuro che non riesce ad apparire normale

di Christian Elia

18 agosto 2013. Cinque automobili parcheggiate. Cinque bombe nascoste nel bagagliaio. Esplodono tutte assieme, in cinque punti differenti di Baghdad. Almeno 33 vittime, più di quaranta i feriti, il 14 agosto scorso.

Un dispaccio di morte, dalla città delle lettere e delle arti, municipio di divinità e confessioni, diventata la città delle ombre. Le autobombe disegnano una mappa dell’odio: una vicino alla Zona Verde, che è stata il quartier generale di Saddam, poi quello delle forze armate Usa e adesso è il fortino di ambasciate e palazzi del potere iracheno.

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foto di Lindsay Addario

Un’altra è stata parcheggiata nel quartiere Khazimiyah, nei pressi di una stazione di autobus. Uno di quegli obiettivi pensati per fare il male più grande a civili inermi. Ma sono sciiti, pensano le ombre, come non esistessero. Altre due, sempre in zone a maggioranza sciita, un’altra in una zona mista, dove convivono da millenni sunniti e sciiti.

Il potere, la convivenza, gli stranieri, gli sciiti. Ecco la mappa dell’odio, nella città delle ombre. Perché oggi Baghdad è come una fotografia fuori fuoco. Negli ultimi mesi sono state più di 3mila le vittime di attentati in città. Ma Baghdad, che in epoca abbaside si chiamava Medinat al-Salam, la città della pace, è come avvolta da una nebbia.

La Siria, l’Egitto, forse gli Usa provano a mettere su ancora una volta il teatrino con Netanyahu che stringe la mano a uno che non è leader di nessuno in Palestina. Non c’è spazio, Baghdad in dissolvenza. E poi i ‘nostri’ son venuti via, quindi se c’è un meridionale ferito in Afghanistan almeno abbiamo l’aggancio in cronaca interna.

Il Tigri e l’Eufrate, al mattino, prima che il sole incenerisca anche la più ferrea delle volontà, coprono di una leggera nebbia Baghdad la grande. E’ come se quella nebbia, oggi, avvolgesse tutto, abitata dalle ombre.

Le ombre sono quelle dei gruppi integralisti, che non hanno più né i numeri né la forza degli anni dal 2003 al 2008, ma sono organizzati, pianificano attacchi mirati. Alle stragi in grande stile di quegli anni, ora si preferiscono le autobombe. Aboliti gli attentatori suicidi: sono troppo pochi i militanti, morti per lo più, o emigrati verso nuovi califfati della follia da costruire.

Le ombre sono quelle dei progressisti, dei laici, degli studenti. Hanno provato ad alzare la testa, nel 2011, emozionati come tutti da quella falsa primavera che sembrava arrivata in Medio Oriente. Sono stati brutalmente schiacciati dal governo di al-Maliki.

Le ombre sono quelle degli sciiti che, per la prima volta, si trovano a dominare un grande paese, ma sono incapaci di gestire questo grande potere, divisi come sono tra filo iraniani e indipendenti, con i curdi sempre più autoreferenziali al nord e i sunniti che (come per le vecchie volpi dei tempi di Saddam) si muovono dietro le quinte.

Le ombre sono quelle dei disperati in fuga, che in quattro milioni hanno abbandonato il paese durante la guerra. Molti sono tornati, ma chi aveva un talento da spendere è rimasto all’estero. Oggi sostituiti da altre ombre in fuga, quelle delle migliaia di profughi siriani, che nessuno sa e vuole gestire.

Le ombre sono quelle che ha annunciato – il 16 luglio scorso – Martin Kobler, inviato uscente delle Nazioni Unite in Iraq, che ha relazionato al Consiglio di Sicurezza di come “i campi di battaglia di Iraq e Siria si stanno fondendo”. In effetti, il governo iracheno è così preoccupato per i combattenti sunniti provenienti dalla Siria al punto tale che, lungo il confine dilaniato dalla guerra, vengono quotidianamente scavate profonde trincee e costruiti alti terrapieni.

Le ombre sono quelle della comunità cristiana, parte determinante della cultura meticcia della Mesopotamia, oggi in fuga, dispersa, nascosta o smarrita nella nebbia.

Nel paese delle ombre non si intravede la luce, ma come insegnano i battellieri dello Shatt al Arab, l’estuario dei grandi fiumi di Mesopotamia, c’è sempre una via d’uscita da ogni dedalo. Buona fortuna, Iraq.



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