La casa di Huambo

di Gabriella Ballarini, da Huambo (Angola). 
19 agosto 2013. Angola, polvere e finestrini….Arrivare a Luanda è una sensazione nuova anche se ci stai tornando, il corpo dimentica, lo sguardo impara ogni volta da capo.

L’aeroporto e tutti appiccicati alle transenne, gli zaini e le valige troppo pesanti dei migranti, dei viaggiatori, di chi si sposta per qualsiasi ragione.

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L’auto gigante, che noi in Italia non ce l’ abbiamo delle macchine così. Il fascino di chi non si stanca di farsi sorprendere dalla sorpresa.

La spazzatura che colora le strade e i viadotti e i corsi d’acqua dove non scorre nulla, dove l’immagine è ferma alle feste consumate, le lattine schiacciate, le taniche bucate che non servono. Tutto brucerà una notte, magari domani e il giorno dopo ci sarà spazio, per altri succhi di frutta salutati in un pomeriggio di scuola, che diventeranno nuvole nere, polvere che nessun terreno saprà digerire.

Il mattino ci si alza presto, alle tre e mezza la stazione degli autobus è già piena, i biglietti sono nominali, i posti a sedere sono sfondati, la strada è stretta, le buche profonde, la velocità è oltre il limite. Le soste sono rapide e si urina coprendosi con stoffe a fiori: un pudore che colora la polvere.

Otto ore di pensieri inquinati da musiche assordanti, la nausea per il caldo, i brividi di freddo, il sonno, la testa pesante: siamo a Huambo.

Huambo e i pezzi da mettere assieme…

I pezzi piccoli e quelli piccolissimi, silenzio e distanza, vicini e con gli occhi bassi sulla polvere.

I pezzi piccoli e quelli piccolissimi, “liscio”, si chiama, “spazzatura”, si traduce.

Camminiamo io e gli altri, piccoli e piccolissimi, bambini che vivevano in strada che vivono in casa, la casa dell’infanzia felice, si chiama.

Huambo, l’inverno Angolano che ti sveglia alle cinque e mezza con il freddo ai piedi e l’alba negli occhi. L’inverno che poi ti ricorda la primavera o una stagione che forse non esiste e non esisterà mai in Italia, il posto da cui sono arrivata, il posto dove mi alzo alle sette e non vedo mai l’alba.

I vetri e la plastica, carta e lattine, frammenti di compiti in classe mai terminati, di lettere mai spedite, camminiamo con il nostro carretto in una processione senza santi e senza preghiere. I pezzi piccoli sono difficili da prendere, quelli piccolissimi difficili da trovare, quelli grandi isole di colore in questa sabbia che si mischia alle pietre e la terra che poi diventa cemento e asfalto e casa.

Odori. Odori nuovi, forti. Un giro alla testa e uno al cuore, stretto come le inferriate attorno all’unica televisione, che magari ci mettiamo un lucchetto, quando è meglio prendersi una pausa, quando ci sono gli esami, quando è giusto chiudere il lucchetto.

La sera scende insieme all’inverno, dopo un giorno senza stagione, dopo le infradito che chiedono aiuto al calzino. La sera scende e salgono le voci, quelle sussurrate, quelle appena accennate, quelle urlate, quelle pacate. Tutte, le voci della sera arrivano tutte. Le voci della preghiera, del vespro e del rosario, ci accompagnano alla cena, ci preparano alla notte. Silenzio, come un ramo contro il rosa del tramonto, come una voce nuova, come un’alba al contrario.

Ogni giorno qui a Humbo finisce con un tramonto, ogni sera con una preghiera, ogni notte abbracciando il cuscino.

Huambo e la casa…

La casa è grande, ha l’odore delle coperte mai lavate e il colore degli arcobaleni interrotti.

La casa è aperta, la gente arriva, poi va via, senza continuità, ma con la grazia di chi sa che sta arrivando e la purezza di chi vorrebbe fermarsi.

La casa è un luogo dove si può arrivare da piccoli, a cinque anni, ma si può anche arrivare da grandi, oppure ci puoi crescere dentro e allora diventa veramente la tua casa, la nostra casa, la casa di chi sa di essere accolto.

Ci si sveglia la mattina presto, alle sei meno un quarto si aprono gli occhi e qualcuno prende per un braccio qualcun altro, forse perché da soli a volte non siamo abbastanza. Il cielo delle sei è limpido e l’aria entra nei buchi delle magliette o dei pantaloni. Ci si ripara con giubbotti da neve, malinconici per una neve che non arriverà mai: “Ma tu l’hai mai vista la neve?”

Come anime addormentate verso la piccola chiesa costruita dai caschi blu portoghesi nel 1994, seduti vicini per stare vicini, pregando un Dio che proteggerà o almeno farà il possibile.

Camminare e guardare a terra, trovare dei tesori, un righello a metà, una pietra di scarto, un bracciale che era una decorazione di Natale. Guardarsi appena, raccogliere i tesori da terra, metterli in tasca, continuare a camminare.

E poi lavorare insieme, studiare, ricordarsi che ti sei dimenticata le divisioni e simulare di non capire il portoghese.

Volontari che perdono i loro riferimenti, che l’Africa è un sogno che costa caro, ti mette alla prova, ti fa stare bene e poi male e poi bene e poi sei in Angola e l’Africa è grande e non finisce qui.

Huambo e la guerra….

Huambo e salutare Huambo…



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