A Gradisca d’Isonzo la prova delle violenze sui migranti tenuti in condizioni disumane
20 agosto 2013. Gradisca d’Isonzo (Gorizia) – Al Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) la giornata comincia sui tetti. È l’unico posto dal quale gli “ospiti” possono vedere il cielo senza che in mezzo ci sia un plexiglass o una grata.
È un tetto che scotta: perché siamo in Agosto, ma soprattutto per l’urgenza di libertà che rinchiude: “li-ber-tà li-ber-tà”, gridano i migranti da là sopra. Sono dieci giorni che salgono sul tetto rompendo le recinzioni che li separano da esso.
Ci salgono per protestare, innanzitutto. Quando gli viene impedito di festeggiare la fine del Ramadan, quando la polizia spara i lacrimogeni nelle camere, quando non ne possono più di non potersi riunire e avere spazi comuni, quando chiedono che la lavanderia funzioni, di poter avere dei libri e di poter comunicare con l’esterno e altri banali elementi di dignità.
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Le vie “normali”, con buona pace dei pacificatori di professione, non funzionano. Perché un CIE non è un posto normale, tantomeno quello di Gradisca. Per quale motivo, altrimenti, molti punti della convenzione tra il gestore, la cooperativa Connecting People, e la Prefettura di Gorizia sarebbero disattesi, in deroga anche a direttive ministeriali che si premurano di indicare che non è esattamente necessario esasperare ulteriormente le condizioni intrinsecamente degradanti di un CIE? La stessa Connecting People sottolinea, in un comunicato di pochi giorni fa, “l’attrito tra le regole imposte e la dignità delle persone”.
Un CIE è un’istituzione totale e come tale si configura, e l’unico rapporto possibile con esso per chi vi è detenuto è la rottura ed il conflitto. Salgono sui tetti perché è necessario, quindi, per rompere non solo le gabbie fisiche ma soprattutto quelle procedurali e mentali: “aspetta”, “pazienza”, “ora vediamo”, “non dipende da me” sono le parole chiave più gentili di ogni conversazione con ogni autorità nel CIE. Salgono sui tetti per vedere il cielo anche, probabilmente. Che è già una forma di rivolta: il cosiddetto “cortile”, al quale hanno un accesso irregimentato e segmentato, frantumato, è coperto da una grata, oltre che suddiviso da spesse e alte pareti di plexiglass. Qual è il motivo per negargli un cielo? Nessuno, quindi salgono sui tetti. Ci salgono perché si sentono vivi, perché lì sopra creano uno spazio umano comune e fuori controllo. Ci salgono per non impazzire, per ritrovare un mondo al di fuori di plexiglass, grate, porte sbarrate, spessi muri di cemento alti 4 metri, con sopra il filo spinato.
Ed il primo mondo che ritrovano è dato da loro stessi e dalla comunità umana in resistenza, costituita dai loro corpi e dalla loro volontà. Comincia quindi così la giornata a Gradisca, ed è il modo migliore.
Per noi inizia con una trappola della Questura che alle 16.30 notifica le prescrizioni per il presidio annunciato. È vietato sostare sulla sede stradale, bloccare il flusso del traffico, ostacolare le operazione del CIE. In pratica, dice la Questura, non dovete disturbare. Prescrizioni e limitazioni che non sono accompagnate, come sarebbe obbligatorio, da alcuna motivazione di ordine pubblico: sono semplicemente illegittime. Oltre che, naturalmente, vergognose.
Tutti noi, trecento che siamo davanti al CIE, abbiamo esattamente voglia di disturbare quella inesistente quiete, abbiamo voglia di salire sul tetto, di resistere, di stracciare le gabbie procedurali con la forza della dignità e del diritto alla libertà di ogni essere umano. Abbiamo anche ragione, formalmente, perché la notifica per un corteo fu annunciata con tre giorni di anticipo, il 14 agosto. E la variazione per trasformarlo in un presidio nella mattina del 16 agosto. Quello stesso pomeriggio vengono notificate la prima volte le misure restrittive già menzionate, ma dopo un’acceso confronto con il Questore di Gorizia queste, la sera del 16 agosto, venivano ritirate (testimone un parlamentare della Repubblica). Per essere ripristinate il 17 agosto mezz’ora prima del presidio, perché il Prefetto aveva rigettato il ricorso contro le precedenti, peraltro, appunto, già ritirate. Un delirio procedurale che nasconde un banale perdita di controllo: il CIE non si può disturbare o perturbare e deve essere il meno visibile possibile.
Per tutti questi motivi, con la fluida naturalezza di un’esondazione, 300 persone sciamano sulla strada antistante i CIE bloccandola, con l’entusiasmo dei migranti che sul tettono ballano, urlano, applaudono rispondendo alla musica e agli interventi dal microfono.
È facile immaginare il loro desiderio di vedere che fuori da là ci sono esseri umani che restano umani, con la stessa spinta a salire sui tetti, a non farsi intimidire, a rigettare senza alcun compromesso i CIE e tutto quanto è con essi connesso e compromesso.
Quel desiderio è il nostro desiderio: salite sui tetti del mondo e lanciate il vostro barbarico yawp, scriveva il poeta.
Questa scelta è la nostra scelta e la nostra responsabilità, perché nessun essere umano ha meno che diritti universali e inviolabili.
E senza nemmeno pensarci, anche noi “saliamo sul tetto”, ignorando le prescrizioni della Questura e creando uno spazio comune tra la strada ed il tetto del CIE.
Per lasciarne un segno, a grandi caratteri ben leggibili da lassù scriviamo lungo la strada “Chiudere i CIE, basta lager”, “liberi tutti”. Oggi abbiamo voluto lasciare il segno che non è di un passaggio ma di una permanenza: la volontà di non abbandonare quello spazio comune fino a quando il CIE non verrà chiuso e quelle orrende mura abbattute. Per lo stesso motivo, lasciamo tutti insieme un segno su quelle mura: la parola “libertà” scritta in molte lingue: in greco, in italiano, in francese, in inglese, in tedesco, in basco, in arabo, in russo e in sloveno. Più in là, polizia e carabinieri presidiano tristemente un cancello di acciaio, sbarrato e alto 4 metri, rintanati dietro caschi, scudi e manganelli. Ma non reagiscono. Oggi la giornata è nostra, di tutti coloro che sono sui tetti.
Vogliamo entrare. Ci sono consiglieri e assessori regionali. Non ci sono i parlamentari che avevano assicurato la loro presenza, ma intavoliamo comunque una trattativa: “aspetta”, “pazienza”, “ora vediamo”, “non dipende da me”, risponde l’autorità di piazza. Dipende dalla Prefetto, la stessa che ha vietato l’uso degli spazi comuni, per intendersi. Che, ovviamente nega l’accesso. Pretende una delega dalla Presidente della Regione, Debora Serracchiani – che ha dichiarato “il CIE va chiuso”, ai consiglieri presenti. Per due ore il meccanismo delle procedure si avvita su sé stesso, senza arrivare a una conclusione. Intanto noi, tutti insieme, lasciamo il segno. In quel CIE, in qualche modo, siamo già entrati e non ne usciremo. Portando con noi le storie che ci vengono gridate dall’alto. Più della metà degli “ospiti” ha perso il permesso di soggiorno perdendo il lavoro a causa della crisi, dopo anni di lavoro (e contributi all’inps). Molti hanno figli, che parlano l’italiano come lingua madre. Molti sono trattenuti da molti mesi, alcuni da più di un anno. Uno da 19 mesi. “Qui dentro impazziamo, non siamo esseri umani”. E ci lanciano gli psicofarmaci che gli vengono dati. Roba pesante.
Intanto, viene ottenuta, di fronte ai consiglieri regionali e registrata dalle videocamere, l’assicurazione che non ci saranno azioni di ritorsione sui migranti, nuove perquisizioni né provocazioni. E un presidio rimane a vigilare sino a tarda notte.
La volontà comune non ha difficoltà a trovare le parole per esprimersi: non c’è un compromesso possibile, il CIE va chiuso, assediamolo. Assediamolo come coalizione sociale da tutti i punti di vista. Continuiamo a susciatare visite incessanti perché quei minimi elementi di libertà riconquistati nei giorni scorsi con la pressione all’interno e all’esterno del CIE (i telefoni, la mensa, il campo da gioco) non siano nuovamente scippati, perché ogni possibile imposizione sia agita nei confronti della Prefettura e del gestore. Sollevando e forzando tutte le contraddizioni, politiche, sociali, sanitarie, amministrative. Riprendendo pezzo a pezzo spazi di libertà, come abbiamo fatto oggi davanti al CIE. I CIE si chiudono aprendoli, salendo su ogni tetto che impedisce di vedere il cielo.