Una casa, in Angola, dove mettere assieme i pezzi di una vita, di tante vite. La casa è aperta, la gente arriva, poi va via, senza continuità, ma con la grazia di chi sa che sta arrivando e la purezza di chi vorrebbe fermarsi
di Gabriella Ballarini, da Huambo (Angola).
25 agosto 2013. Huambo e Dito…
Si scrive Dito si legge Ditu.
Dito è piccolo, ma non sta nel palmo di una mano, sta in braccio, specialmente oggi che non ha voglia di aprire gli occhi. Si accartoccia e poi si appende, io cammino e mi trascino con il suo peso che pesa sulla mia schiena, Dito dorme e mi bagna la spalla di saliva, poi la gamba, poi accetta la canna da zucchero che ho conservato per lui.
Dito è piccolo, ma non sta nel palmo di una mano e la sua storia non la conosco, Dito parla poco, non mi guarda quasi mai, io lo cerco, Dito sfugge, io lo trovo addormentato sul banco.
Dito è piccolo, ma non sta nel palmo di una mano, vorrei conoscere la sua storia, ma Dito non me la racconta. “Tu parli poco vero?” Su e giù con la testa, che anche in Angola vuol dire Sì.
Quante storie vorrei tirare fuori dalla polvere di questa terra senza pioggia, di questa notte senza stelle, di questa luna con gli spigoli.
Vorrei tirarle fuori, come i panni dalla lavatrice, come le matite dall’astuccio, una per colore, un colore alla volta, vorrei.
Vorrei è un verbo strano, come un freno, come un confine che ti confonde e mischia quello che sei con quello che non sarai mai.
Humbo, terra di contraddizioni.
Dito ha solo una scarpa, ma è la scarpa di Luciano e allora gliela fanno togliere.
Dito non ha scarpe adesso, io ne ho due e sono stata da una sarta questa mattina: 50 euro per cucire un vestito.
Dito è piccolo, ma non sta nel palmo di una mano.
Huambo e la guerra….
Io non la conosco bene la storia della guerra in Angola, ma qualcosa scopro e lo scopro a Ngulaua. Villaggio indigeno a pochi chilometri da Huambo. Le case con i mattoni di terra, la terra per terra come in una foto senza contorni. Le donne che arrivano una alla volta e poi dieci e i bambini che pendono dalla schiena, che sembra non faccia male. Quasi vorrei provare anche io, goffa, bianca e distante.
Una volontaria scatta una foto: “Ma quella chi è? Mi ruberà l’anima?” chiede la signora in Umbundu.
L’anima, chissà se gliel’abbiamo rubata veramente…
La guerra me la racconta Ignazio, un religioso angolano, mi parla di molta gente: gli americani del nord, i cubani, i cinesi, i russi, i capoverdiani. Mi racconta un pezzo alla volta, io non riesco a mettere tutte le informazioni insieme. Dice che i nordamericani fornivano le armi alla sinistra e poi i russi all’altra parte che però forse non era la destra. Sono confusa.
Quello che mi rimane sono gli sguardi di chi racconta, una guerra che ti porta via: “Io sono scappato in un’altra città, poi in un’altra ancora, non lo so bene di dove sono. Chi vive la guerra, rimane confuso”.
Huambo e la confusione che ti rimane in testa, i capi villaggio, i sindaci e il Presidente, le elezioni che tanto non si presenta nessuno, si presenta solo il Presidente.
“Quando c’è la guerra tutto si ferma e poi ricominciare a vivere necessita tempo”. Forse questo è quello che voglio sapere, la mia Wikipedia angolana è fatta di sensazioni, non di date o punti cardinali.
E dopo la guerra? I ricchi, i ricchissimi, i diamanti e il petrolio. Una festa consumata. Spettacolo crudele.
Huambo e il reparto psichiatrico…
La strada che separa la casa dall’ospedale è breve, in dieci minuti arriviamo. Ci sono i giardini ad accoglierci, ordinati, inariditi. All’entrate del reparto psichiatrico la gente saluta, noi salutiamo e lo sguardo non trova appigli, sulle pareti bianche, i pavimenti bianchi. Bianchi i lavandini, bianche le porte. Le sedie di metallo, ci sediamo. I paziento possono arrivare senza appuntamento, si siedono anche loro, ciascuno con il suo festo, le sue parole, tutte le storie da raccontare a se stessi, le canzoni cantate.
Tonito si avvicina e si presenta.
“Ciao, sono Tonito, vi posso cantare una canzone?”
Tonito canta canzoni d’amore, ci dice di ascoltare bene le parole.
Tonito si toglie il berretto e mi mostra una ferita alla testa, mi dice che se l’è fatta nel 1976, io non la vedo, ma gli allargo lo sguardo e sorrido: “è proprio una ferita grande!”
Ha un rebus tra le mani Tonito, ci chiede di risolverlo, la calligrafia è rotonda, l’ultima lettera sempre più lunga.
Non capisco. “Ma tu l’hai fatta la settimana classe?”, poi Tonito se ne va.
L’infermiera ci fa strada, ancora bianco, i vetri trasparenti, si vedono gli orti curati dai pazienti. Corridori, silenzio, l’odore di pulito che confonde i miei pensieri, nelle stanze non ci sono materassi, “i pazienti li distruggono, non ne abbiamo più”. Alcuni riposano, tutte le sfumature di un sonno guidato, pilotato, un sonno tra le coperte di lana, un sonno scoperto, un sonno profondo, irreale, che lascia i segni ai lati della bocca, che appesantisce gli occhi.
I reparti con le porte blindate, le stanze vuote, le grate alle finestre, le maniglie assenti, le scritte sui muri, come un delirio indelebile che il tempo non cancellerà, i letti e le coperte, tutto instancabilmente pulito, la luce a scacchi di chi non crede che un salto nel vuoto sia l’unica salvezza.
Lo stomaco si stringe quando si incrocia lo sguardo “Non mi butterò più, ma ora aspetto le stampelle”. Esco, il sole scalda le mani. Da qui vedo l’ingresso del reparto. Le infermiere, i parenti e le moto parcheggiate senza criterio.
Un uomo annaffia il giardino con generosità e racconta la guerra, un saluto militare e mi mostra la schiena, dritta, quattro passi avanti “A-ttenti!!”
La donna senza pudore si siede a fianco, il seno scoperto e una nenia, qualcosa che parla di Dio, qualcosa che non so cosa fosse. Si alza come chi sa dove deve andare. Contro la bellezza, strappa un fiore, la lancia a terra. Ritorna a sedersi. Dalla gonna si intravede un sesso scoperto, si alza ancora, la donna che perse il pudore, cammina via, la bellezza rimane a terra, ignorata dai passanti.
Huambo e salutare Huambo…