I referendum e le navi da guerra non possono farci niente: come tutte le altre vestigia degli imperi che furono, Gibilterra e le Falkland sono destinate a essere restituite presto o tardi
di Simon Jankins, dal The Guardian, traduzione di Anna Bissanti per PressEurope
25 agosto 2013. Non c’è niente di meglio di una cannoniera. La Illustrious di Sua Altezza Reale il 12 agosto è scivolata silenziosamente fuori da Portsmouth, ha superato la HMS Victory e la folla plaudente di patrioti. Nel giro di una settimana era al largo di Gibilterra, a un tiro di cannone da Capo Trafalgar. I petti della nazione si sono gonfiati, sono spuntate alcune lacrime. Lo spirito olimpico si è dileguato per strinare la barba del re di Spagna.
Si può dire molto di ciò che fu l’impero britannico, ma di sicuro non c’è più, è morto e sepolto. L’idea che una nave da guerra britannica possa anche vagamente minacciare la Spagna è ridicola. Cosa dovrebbe fare, bombardare Cadice? I suoi cannoni daranno il via a un fuoco di fila contro una colonia che la maggior parte dei britannici considera piena zeppa di evasori fiscali, trafficanti di droga e brontoloni di destra? Gli abitanti di Gibilterra hanno i loro diritti, ma perché i contribuenti britannici dovrebbero mandare le loro navi per farli rispettare, anche soltanto sotto forma di “un’esercitazione”, è un vero mistero.
Qualsiasi studio sulle colonie britanniche contese, Gibilterra e le Falkland, può giungere soltanto a due conclusioni possibili: dal punto di vista del diritto internazionale le pretese britanniche sono del tutto legittime, ma anche sono del tutto insensate.
Gli stati nazione del ventunesimo secolo non tollereranno nemmeno la relativamente piccola umiliazione di ospitare i detriti degli imperi del XVIII e XIX secolo. La maggior parte degli imperi europei nacque dalla realpolitik del potere, per lo più dai trattati di Utrecht (1713) e Parigi (1763). Quella stessa realpolitik oggi decreta il loro smantellamento. Uno dei primi obiettivi delle Nazioni Unite fu proprio questo.
Naturalmente, coloro che vivono in queste colonie hanno diritti di cui si deve tener conto, ma questi diritti non hanno mai prevalso sulla realtà politica. Né il Regno Unito ha proclamato una cosa del genere, quanto meno quando lo imponevano le circostanze. I residenti di Hong Kong e di Diego Garcia non sono stati interpellati né hanno ricevuto garanzie sulla loro “autodeterminazione” quando il Regno Unito volle buttarli nel cestino della storia. Hong Kong fu “passata” alla Cina nel 1997, quanto ebbe fine l’affitto dei Nuovi Territori. Diego Garcia fu consegnata al Pentagono nel 1973. I britannici di Hong Kong si videro negare il passaporto e gli abitanti di Diego Garcia furono sbrigativamente sfrattati e spediti a Mauritius e nelle Seychelles.
La sicurezza del Regno Unito non ha bisogno di questi posti. Non dipende dalle stazioni di rifornimento di carbone nell’Atlantico. La Francia sopravvive benissimo senza essere più padrona del Senegal e di Pondicherry, come il Portogallo senza São Tomé e Goa. Quando gli indiani riconquistarono Goa nel 1961 il mondo non fece obiezioni. Il piano per l’invasione argentina delle Falkland nel 1982 fu chiamato Operazione Goa, dato che Buenos Aires diede per scontato che sarebbe stata considerata anche quella una semplice operazione di pulizia post-imperiale.
Ciò che resta dell’impero britannico oggi per lo più sopravvive negli interstizi dell’economia globale. Sono i beneficiari dell’emorragia fiscale nata dalla globalizzazione finanziaria. Molti sono diventati sinonimo di ogni possibile bassezza. Le autorità tributarie americane sono in collera con Bermuda. George Osborne si è lanciato nella caccia agli evasori fiscali alle Cayman e nelle Isole Vergini Britanniche.
La Spagna ha da tempo esposto le sue rimostranze per il ruolo che Gibilterra riveste nell’aiutare il passaggio di clandestini, il riciclaggio di denaro sporco e le scommesse illegali fuori dalla sua portata giudiziaria. Tutto ciò è culminato nel rapporto dell’Fmi del 2007 sulle carenze della regolamentazione finanziaria della colonia. Lo status di paradiso fiscale di Gibilterra le ha assicurato una notevole ricchezza e ha scatenato la rabbia della Spagna per le incredibili quantità di denaro esentasse che affluisce in quello che considera un territorio di sua proprietà.
Queste colonie dichiarano di essere “più britanniche dei britannici”, solo che non pagano le tasse nel Regno Unito e sono diventate paradisi fiscali per fondi britannici. Gibilterra in particolare si è specializzata nelle scommesse su internet. Le colonie giurano di essere fedeli alla corona, ma non al suo ministro delle finanze o alla polizia tributaria. Sono parchi churchilliani a tema, fatti di cassette rosse della posta, fish and chips e birra calda. Ma vogliono la botte piena e la moglie ubriaca. Quando i loro vicini di casa la mettono sul difficile, esigono che i loro finanziatori mandino i loro soldati, i loro diplomatici e i loro avvocati in loro soccorso.
La causa legale tra Regno Unito e Spagna è favorevole alla prima. Anche se Londra non ha voluto entrare nell’area Schengen, nella quale è possibile circolare senza controlli ai confini, si presume che tutti gli stati dell’Ue favoriscano lo spostamento dei loro cittadini. La Spagna ha proposto una tassa di ingresso di 43 sterline, ritenuta eccessiva. Potrebbe sembrare assurdo per i ministri Tory perorare la loro causa davanti agli odiati tribunali europei, ma è quello il luogo giusto per farlo.
Premesso ciò, sembra assurdo e inverosimile che un onesto mediatore non riesca a ricomporre questa disputa vecchia di secoli. In varie occasioni il Regno Unito ha cercato un accordo di compromesso sulla sovranità di Gibilterra. Thatcher diede inizio ai negoziati nel 1984, dopo aver risolto con successo analoghe dispute sia con la Rhodesia che con Hong Kong. Gli spagnoli offrirono a Gibilterra lo statuto speciale, come per i Paesi Baschi e la Catalogna, rispettandone la lingua, la cultura e un certo livello di autonomia fiscale. Come ha dimostrato Hong Kong, trasferimento della sovranità non vuol necessariamente dire assorbimento politico.
Paradisi protetti
La vera sciagura è stata che l’inettitudine spagnola ha alimentato l’intransigenza degli abitanti di Gibilterra. I “sequestri” alle frontiere sono controproducenti se si vuole conquistare i cuori e le menti, come lo furono gli sbarchi degli argentini alle Falkland. La Spagna adesso ne chiede la sovranità – malgrado abbia colonie nel nord Africa essa stessa. Questo ha messo i governi britannici con le spalle al muro, li ha resi vulnerabili nei confronti dei lobbisti coloniali che impugnavano la richiesta di autodeterminazione. Un referendum indetto a Gibilterra nel 2002 ha confermato un sostegno del 98 per cento allo status di colonia. E un referendum indetto alle Falkland ha dato un risultato assai simile. Si è dunque molto lontani dal caso che indusse Thatcher a restituire Hong Kong prontamente e ad accettare la “sovranità con leaseback” sia da Madrid sia da Buenos Aires.
La verità è che le colonie britanniche diventate paradisi fiscali si sentono più sicure che mai, favorite dalla storia, sotto la protezione britannica e libere di scegliere il lato oscuro dell’economia globale alla ricerca di soldi. Ciò ha fatto sì che nascesse e prosperasse una tribù di “britannici” ricoperti d’oro che vivono in eterno in un’altra dimensione. Quando ho chiesto a un abitante di Gibilterra che affermava di essere “britannico al 150 per cento” per quale motivo ritenesse di non dover pagare le tasse britanniche al 100 per cento mi ha risposto: “Perché dovrei pagare per chi vive a migliaia di chilometri da qui?”.
Finché contraddiranno la logica della storia e della geografia, né gli abitanti di Gibilterra né quelli delle Falkland si sentiranno mai veramente “sicuri”. Uno di questi giorni queste appendici in qualche modo confluiranno nel loro hinterland e smetteranno di essere altrettanti sassolini nelle scarpe delle relazioni internazionali. Quel giorno si avvicinerà rapidamente se i governi del mondo prenderanno iniziative per chiudere una volta per tutte i paradisi fiscali.
Nel frattempo gli abitanti di Gibilterra possono continuare a votare che preferiscono “restare britannici” fino a quando ne avranno voglia. Ma se non accetteranno le norme e le discipline tributarie alle quali si assoggetta la maggior parte degli europei, pur continuando ad attirare affari dai centri finanziari europei, difficilmente potranno aspettarsi che uno stato dell’Ue li protegga da un altro. Un’occasionale fila di sei ore a La Linea è un misero prezzo da pagare, tutto sommato, per il rifiuto di entrare a far parte del mondo reale.